NUOVE FORME DI CONTRATTO DI LAVORO IN ITALIA, IL CONTRATTO A PROGETTO
Linda D'Ancona
Ho scelto di parlare delle nuove forme di contratto di lavoro in Italia, ed in particolare del contratto a progetto, per dare conto delle trasformazioni del diritto del lavoro in Italia negli ultimi anni, e segnatamente dall’inizio del nuovo millennio. Sono convinta che non si possa comprendere il fenomeno delle trasformazioni del diritto del lavoro in Italia, e non si possa valutare appieno l’impatto delle nuove tipologie di contratti di lavoro, se non si ripercorre brevemente a storia del diritto del lavoro italiano degli ultimi anni, anche allo scopo di verificare quanto la fenomenologia del diritto del lavoro in Italia sia eccentrica rispetto alle linee direttrici contenute nelle Direttive comunitare e rispetto alle politiche europee in materia di mercato del lavoro.
In Italia, il dibattito sulle tipologie di contratto di lavoro subordinato ha subito una profonda sterzata ed accelerazione a seguito del “Libro bianco sul mercato del lavoro in Italia” predisposto da una commissione coordinata da Maurizio Sacconi e Marco Biagi e pubblicato nell’ottobre 2001. Al momento della presentazione del documento, il Ministro del lavoro dell’epoca precisò che la redazione del Libro bianco era finalizzata a rendere pubbliche le riflessioni del governo sul tema del mercato del lavoro e delle tipologie adottabili. Si trattava pertanto di un documento politico, suddiviso in due parti: la prima dedicata ad una analisi del mercato del lavoro in Italia, ed a valutare le inefficienze ed iniquità, e la seconda a contenuto propositivo, intitolata “proposte per promuovere una società attiva ed un lavoro di qualità”. Dalla lettura del Libro bianco emerge che, in realtà, analisi e proposte erano indissolubilmente connesse tra loro, e che la disamina dei fenomeni prendeva le mosse da assunti di base ben precisi, per giungere a conclusioni e proposte fortemente influenzate dalle premesse.
Poco dopo la diffusione del Libro bianco, il 15 novembre 2001, il governo italiano approvò il disegno di legge 848 per la riforma del mercato del lavoro, in cui si trasfondevano gran parte delle proposte contenute nel Libro, ed in cui si proponeva una profonda modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, quella norma che in Italia prevede l’ordine del giudice di reintegrare il lavoratore nel proprio posto di lavoro, nel caso di licenziamento illegittimo, per le ipotesi di aziende con un numero di dipendenti superiore a quindici. Ne scaturì un forte conflitto sociale, all’esito del quale il governo, nel giugno 2002, decise di eliminare dal disegno di legge la riforma dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (norma che, per fortuna, esiste ancora e che recentemente la Corte di Cassazione ha ulteriormente interpretato e valorizzato, con una sentenza delle Sezioni Unite n. 141/2006); ma l’impianto di base del disegno di legge 848 rimase inalterato ed il suo percorso di approvazione fu abbastanza celere, considerati anche i tempi in cui normalmente si completavano gli itinerari legislativi di molti altri progetti. Sempre ripercorrendo la storia dei più recenti cambiamenti legislativi in Italia, nel luglio 2002 il Governo italiano ed una serie di associazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori stipularono il Patto per l’Italia – contratto per il lavoro. Il Patto non fu sottoscritto dalla CGIL, confederazione dei sindacati di sinistra, per ragioni pregnanti e significative, che sono state esposte in un documento pubblicato sul sito www.cgil.it
Il Patto indicava la necessità di una serie di azioni convergenti per far sì che la crescita economica del Paese si traducesse in nuovi e “migliori” posti di lavoro. Al di là delle affermazioni altisonanti, l’accordo aveva carattere generico e vago nelle sue declamazioni di principio. Infatti se è vero che non si può prescindere da un mercato del lavoro trasparente ed efficiente, da una politica di emersione del lavoro sommerso (che affligge soprattutto il Sud Italia), da politiche della formazione sul lavoro e da una riduzione della pressione fiscale sui redditi medio-bassi, era altrettanto indubitabile che queste affermazioni di principio avrebbero dovuto tradursi in atti concreti ed in una politica effettivamente improntata a risolvere problemi endemici del mercato del lavoro italiano, senza dimenticare la necessità di un ampliamento delle misure di sostegno per l’aumento concreto delle potenzialità occupazionali; invece, la storia è stata un’altra ed è stata caratterizzata da interventi di “facciata” volti a diffondere risposte illusorie ed ipocrite in tema di aumento delle potenzialità del mercato del lavoro. Il Patto per l’Italia prevedeva anche un impegno del governo ad avviare la riforma fiscale e degli ammortizzatori sociali, a realizzare interventi per il Sud Italia, a rilanciare la ricerca e l’innovazione, a finanziare la riforma del sistema formativo e le politiche attive per l’occupazione. La CGIL – Confederazione Generale Italiana del Lavoro – decise di non sottoscrivere il Patto per le seguenti ragioni: è stata ritenuta preoccupante la differenziazione su base territoriale dell’entità degli ammortizzatori sociali, è stata ritenuta più modesta di quanto propagandato la proposta di aumento dell’indennità di disoccupazione, è stata ritenuta una mera posizione di facciata quella del governo di impegnarsi per l’emersione del lavoro “nero”, si è ritenuto che l’impegno del governo a garantire una adeguata spesa sociale non solo non era veritiero, ma in realtà consentiva riduzioni ulteriori alla spesa; del tutto inaccettabile è stata considerata la proposta di abolizione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. In sostanza, la CGIL “smascherava” molte delle illusorie affermazioni contenute nel Patto, e manifestava sconcerto per l’idea di ridefinire complessivamente la legislazione del lavoro, ossia lo Statuto dei lavoratori. Le preoccupazioni della CGIL e di alcuni giuristi si sono successivamente rivelate fondate: in primo luogo il disegno di riforma del diritto del lavoro, come pensato dal governo di centro destra capeggiato dal Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi prevedeva, originariamente, oltre ad una riforma delle tipologie di contratto di lavoro ed alla riforma del metodo della concertazione (trasformandolo in metodo del “dialogo sociale”), deleghe al governo per la riforma degli ammortizzatori sociali, delle indennità di disoccupazione ed incentivi in tale ambito; tuttavia, a seguito del conflitto sociale originatosi a causa della paventata riforma dell’articolo 18 Statuto dei Lavoratori, il governo ebbe facile strada per eliminare dall’originario progetto legislativo non soltanto la riforma dell’art. 18 Statuto dei lavoratori, ma anche una serie di previsioni che riguardavano la materia delle incentivazioni finanziarie per l’occupazione e la riforma degli ammortizzatori sociali, decapitando in tal modo un impianto normativo, di riforma del diritto e del mercato del lavoro, che doveva essere analizzato, discusso ed eventualmente approvato unitariamente. Invero, nella mente del suo ideatore Marco Biagi, il progetto di riforma si componeva di parti integrate, che si sorreggevano e si giustificavano vicendevolmente: la riforma del diritto del lavoro, ossia l’avvio italiano verso la flessibilità (e vedremo di quale tipo di flessibilità), non poteva non accompagnarsi ad una seria riforma degli ammortizzatori sociali. Al contrario, invece di considerare la struttura della riforma come un sistema unico, in cui nessuna parte poteva essere eliminata se non a prezzo di stravolgere l’intero progetto, il Governo pensò di liberarsi del problema della riforma degli ammortizzatori sociali, stralciandolo dal progetto di legge sul diritto e mercato del lavoro ed inserendolo in un disegno di legge a parte, il ddl 848 bis, che non ebbe alcun seguito e che non fu coltivato in Parlamento. Pertanto, al di là di ogni considerazione sull’introduzione di nuove tipologie di contratto di lavoro, che saranno analizzate più in avanti, emerge un primo dato importante: l’unitario progetto di riforma è stato sin dall’inizio decapitato di una parte fondamentale, in modo del tutto spregiudicato, e con il risultato non solo di tradire le intenzioni del suo ideatore, ma soprattutto di approvare una riforma che apriva il baratro del precariato, non garantiva alcuna tutela ai rapporti di lavoro temporanei introdotti con le nuove norme, non assicurava alcun tipo di sostegno per le imprese che si ponessero responsabilmente il problema di garantire un futuro di stabilità ai lavoratori, non garantiva misure di accompagnamento e di sostegno sociale per i periodi a cavallo tra un lavoro temporaneo ed un altro; il tutto, condito da affermazioni altisonanti circa un notevole aumento dei posti di lavoro.
L’iter del disegno di legge 848 non fu lunghissimo, ed il 14 febbraio 2003 fu approvata la legge n. 30/2003 – cd. “Legge Biagi” con cui il Parlamento italiano delegava il Governo all’emanazione di una serie di provvedimenti legislativi, sulle materie indicate nella legge delega, che riguardavano: la disciplina dei servizi pubblici e privati per l’impiego, la materia dell’intermediazione ed interposizione nei rapporti di lavoro, la revisione della disciplina della cessione di ramo di azienda; il “riordino dei contratti a contenuto formativo e di tirocinio”; la riforma della disciplina del lavoro a tempo parziale; l’introduzione delle “tipologie di lavoro a chiamata, temporaneo, coordinato e continuativo, occasionale, accessorio ed a prestazioni ripartite”; infine, la riforma riguardava anche la certificazione dei rapporti di lavoro. Con il successivo Decreto Legislativo 10.9.2003 n. 276, entrato in vigore il 24.10.2003, il Governo dava attuazione alla delega legislativa contenuta nella Legge Biagi. In particolare, per quel che interessa la presente trattazione, il Decreto Legislativo 276/2003 conteneva il Titolo V denominato “Tipologie contrattuali a orario ridotto, modulato o flessibile” ed il titolo VII denominato “Tipologie contrattuali a progetto e occasionali”.
In questo quadro storico-normativo, la figura del contratto a progetto viene considerata come un emblema della riforma delle tipologie contrattuali: ritenuta dai suoi sostenitori assolutamente rivoluzionaria e positiva, ideata allo scopo di rimediare all’uso strumentale della figura dei Co.Co.Co. (collaboratori coordinati e continuativi) e volta ad ampliare il ventaglio delle tipologie di lavoro flessibile, nella realtà il contratto di lavoro a progetto ha fallito tutti gli obbiettivi che il legislatore si proponeva con la sua introduzione, ed ha finito per costituire un modo ancor più raffinato per eludere le tutele accordate al lavoro subordinato e per rendere ancora più insicura, se possibile, la posizione di chi offre la propria prestazione lavorativa. Ho pertanto ritenuto di esaminare tale figura contrattuale, in quanto ritenuta emblematica della profonda trasformazione del diritto del lavoro, attuata con la Legge Biagi e con il Decreto Legislativo 276/2001( nonché con altri importanti provvedimenti legislativi, primo tra i quali il Decreto Legislativo 8.4.2003 n. 66 di attuazione delle Direttive 93/104/CE e 2003/34/CE concernenti l’organizzazione dell’orario di lavoro). Del resto, figura del contratto a progetto è stata considerata esemplificativa delle reali finalità della legge 30/2003 e dell’incompatibilità tra la riforma del diritto del lavoro introdotta nel 2003 e lo sviluppo di un diritto del lavoro moderno, che sappia coniugare flessibilità e tutele. Occorre ancora evidenziare che, soltanto nel 2004, quasi una impresa su quattro, tra quelle che hanno effettuato nuove assunzioni, ha fatto ricorso al contratto a progetto; il che significa che il contratto a progetto è piaciuto alle imprese, e tale dato può essere ritenuto preoccupante, ove si consideri che le imprese, in Italia, hanno concentrato e concentrano tuttora la loro attenzione a tipologie di contratti che lascino loro il più possibile spazi di manovra libera – ed incontrollata . nei rapporti con i lavoratori, ed in genere con chi offre le proprie energie lavorative. Come dire che in Italia si è voluta ed attuata una flessibilità favorevole solo alle imprese, e che le imprese hanno colto gli aspetti della riforma vantaggiosi per loro. Orbene, l’art. 61 del D. Lgs 276/2003 prevede che i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa devono essere riconducibili a uno “o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento con l’organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l’esecuzione dell’attività lavorativa”; sono escluse dal contratto a progetto le prestazioni occasionali, ossia i rapporti di durata non superiore a trenta giorni, nonché le prestazioni di tipo professionale per le quali è necessaria l’iscrizione in appositi Albi. Il successivo articolo 62 prevede che il contratto di lavoro a progetto debba essere stipulato in forma scritta e deve indicare la durata del rapporto, il progetto o programma di lavoro, individuata nel suo contenuto caratterizzante, le forme di coordinamento del lavoratore a progetto al committente sulla esecuzione, anche temporale, della prestazione lavorativa, che in ogni caso non possono essere tali dai pregiudicarne l’autonomia nell’esecuzione della prestazione lavorativa, il corrispettivo ed i criteri della sua determinazione, nonché i tempi e modalità di pagamento. Pertanto, nell’ambito del contratto a progetto vi è un lavoratore autonomo, il quale mette a disposizione di un soggetto le proprie competenze lavorative in vista della realizzazione di un progetto, ovvero di una fase di un progetto, con autonomia nei tempi e nelle modalità di lavoro in vista del raggiungimento del risultato e con l’unica necessità di coordinamento con l’organizzazione del committente. Pertanto la specificazione e realizzazione di un “progetto” – quale che esso sia – diviene il discrimine per stabilire se il rapporto di lavoro è autonomo o subordinato, con la conseguenza che, in caso di lavoro autonomo a progetto, sono negate al lavoratore le tutele previste per il lavoro subordinato (in primis la possibilità di una stabilizzazione, riconosciuta persino, a determinate condizioni, per i lavoratori a tempo determinato; inoltre le garanzie previste dallo Statuto dei Lavoratori, nonché le tutele previste in caso di malattia, maternità, ecc..). In pratica, l’unica strada percorribile dal lavoratore a progetto per cercare di ottenere maggiori garanzie è quella di aspirare ad essere qualificato come lavoratore subordinato, confidando nella genericità del programma o progetto di lavoro. Invero, secondo la giurisprudenza di merito, ai sensi dell'art. 62 D.Lgs. 10/9/03 n. 276 l'indicazione del "progetto, programma di lavoro o fase di esso" è elemento essenziale del contratto e la mancanza di esso, alla quale viene equiparata la genericità o l'indeterminatezza dello stesso, viene sanzionata con la qualificazione ab origine del rapporto come di lavoro subordinato a tempo indeterminato (nel caso di specie, non è stato ritenuto adeguatamente enunciato il progetto, consistente nella semplice descrizione del contenuto delle mansioni della lavoratrice, senza alcun accenno all'obiettivo che si intendeva raggiungere e alle attività prodromiche e funzionali al suo conseguimento). Ed ancora, la mancanza di specificità del progetto contenuto dal contratto determina che il rapporto tra le parti deve ritenersi sorto come rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato fin dalla sottoscrizione del contratto, indipendentemente dalle concrete modalità con le quali si è di fatto svolto il rapporto di lavoro. Peraltro, la trasformazione del contratto a progetto in rapporto di lavoro subordinato, prevista dall’art. 69 D. Lgs 276/2003 nel caso di assenza o genericità del progetto o ancora di esecuzione di un’attività diversa da quella indicata nel progetto, viene considerata dalla giurisprudenza come una vera e propria “sanzione” per il datore di lavoro, che si ritrova ad avere come lavoratore subordinato colui che mai avrebbe voluto assumere alle proprie dipendenze: in tal senso si è espresso il Tribunale di Milano, affermando che la sanzione prevista dall’art. 69, comma 1, del D.Lgs. n. 276/2003 per l’ipotesi di omessa individuazione dello specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso, di cui all’art. 61, comma 1, del D. Lgs. cit., consistente nella declaratoria della natura subordinata e a tempo indeterminato del rapporto, va applicata anche nel caso in cui, pur essendo presente la suddetta indicazione, venga accertato che l’attività in concreto svolta dal lavoratore sia divergente con l’individuato progetto, programma di lavoro o fase di esso. In sostanza, la giurisprudenza mostra di riconoscere che il contratto a progetto è una figura ideata dal legislatore ad esclusivo vantaggio delle imprese, e qualifica come sanzione la conversione del contratto a progetto in lavoro subordinato. Nella pratica, il contratto a progetto è stato spesso utilizzato in modo strumentale dalle imprese, allo scopo di eludere le norme previste a tutela del lavoro subordinato: molti lavoratori hanno dovuto sottoscrivere uno o più contratti a progetto prima di essere definitivamente assunti come lavoratori a tempo indeterminato, in tal modo percorrendo un viatico difficile e lastricato di incertezze verso maggiori garanzie. E’ evidente, pertanto, che con il contratto a progetto si è persa una grande occasione, ossia quella di introdurre garanzie specifiche per una tipologia di rapporti, caratterizzata dalla etero direzione e dalla dipendenza economica dal committente, che non presenta più differenze sostanziali rispetto ai rapporti di lavoro subordinato, e non giustifica pertanto il riconoscimento di tutele di gran lunga inferiori.
A fianco del contratto di lavoro a progetto, ed in aggiunta a tale figura, viene introdotto il contratto di lavoro occasionale, con previsione di attività lavorative di natura meramente occasionale rese da “soggetti a rischio di esclusione sociale o comunque non ancora entrati nel mercato del lavoro o comunque in procinto di uscirne” in settori tassativamente individuati dalla norma (art. 70 D. Lgs 276/2003) nei lavori domestici, nell’insegnamento privato supplementare, nei piccoli lavori di giardinaggio e di pulizia manutenzione di edifici e monumenti, nella realizzazione di manifestazioni sociali, sportive culturali o caritatevoli, nella collaborazione con enti pubblici e con associazioni di volontariato. Il successivo articolo 71 prevede che possano svolgere attività di lavoro accessorio soltanto i disoccupati da oltre un anno, le casalinghe, gli studenti, i pensionati, i disabili, i soggetti entrati in comunità di recupero, i lavoratori extracomunitari regolarmente soggiornanti in Italia, nei sei mesi successivi alla perdita del lavoro. Ciò posto, ed a prescindere dall’assurdo sistema di pagamento dei corrispettivi per le prestazioni di lavoro accessorio, disciplinato dall’art. 72 D Lgs, 276/2003, occorre evidenziare che, nella pratica, non si è fatto ricorso a tale tipologia contrattuale, che si è rivelata anch’essa una novità del tutto inutile e inadeguata a fronteggiare le esigenze del mercato del lavoro.
In aggiunta a tali considerazioni, occorre tenere presente che la situazione del mercato del lavoro in Italia è alquanto diversificata tra Nord e Sud: mentre al Nord Italia si registrano tassi di occupazione sicuramente superiori, nel Sud il tasso di occupazione è nettamente inferiore, non soltanto perché si riscontra un minore tasso di occupabilità, ma anche perché al Sud Italia è più frequente il ricorso al lavoro “nero” ossia al lavoro sommerso, con rapporti di lavoro sorti in dispregio di qualsiasi norma a tutela dei lavoratori ed in violazione delle prescrizioni in tema di contribuzione obbligatoria. Il lavoro “nero” è presente anche al Nord Italia, ma nel Sud (ed anche nelle imprese che dal Sud ottengono lavori nel Nord Italia, soprattutto nel settore edile) assume proporzioni davvero preoccupanti, ed induce a ritenere che la previsione delle nuove tipologie di contratto di lavoro, contenuta nella Legge Biagi e nel successivo decreto legislativo di attuazione, sia stata del tutto inapplicata, e che tali nuove figure contrattuali fossero del tutto inadeguate a fronteggiare un fenomeno di così vasta portata come quello del lavoro al di fuori di qualsiasi schema normativo. Invero, se al Nord Italia la Legge Biagi ha determinato un effetto di precarizzazione dei rapporti di lavoro mediante il ricorso alle figure atipiche in assenza di qualsiasi sostegno sociale (rectius, forma di welfare innovativa ed integrata con la normativa di nuova introduzione), al Sud la riforma del mercato del lavoro non ha prodotto l’effetto che con tanta sicurezza gli si attribuiva, ossia quello di garantire l’emersione del lavoro “nero”. In realtà, gli imprenditori del Sud, soprattutto nelle piccole e medie imprese, hanno trovato molto più conveniente continuare semplicemente a non denunciare i lavoratori subordinati assunti, evitando in tal modo qualsiasi tassazione dei rapporti e qualsiasi obbligo contributivo e previdenziale, piuttosto che ricorrere ad una delle figure contrattuali atipiche di cui al D. Lgs 276/2003. Ciò a causa del tasso di disoccupazione e della difficile e complessa situazione economica e sociale nel Sud, che non consente un incontro tra domanda ed offerta di lavoro se non in termini di assoluta violazione dei diritti dei lavoratori, i quali a loro volta sanno di non riuscire a reperire lavoro “regolare” e di doversi quindi accontentare delle condizioni dettate dai datori di lavoro. Nei Tribunali del Sud non si registrano controversie aventi ad oggetto l’adozione delle nuove tipologie contrattuali disegnate dalla Legge Biagi, mentre gran parte delle controversie ha ad oggetto il riconoscimento della sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, per lavoratori mai formalmente inquadrati e mai retribuiti secondo i livelli salariali previsti dalla contrattazione collettiva. E’ evidente, pertanto, che non solo la Legge Biagi ha prodotto un arretramento delle tutele, costituzionalmente previste, del diritto al lavoro ed alla stabilità del posto di lavoro, ma ha anche fallito gli obbiettivi dell’aumento dell’occupazione e dell’emersione del lavoro sommerso, determinando invece un effetto di precarizzazione dei rapporti di lavoro, che si è riverberato negativamente anche sulla qualità della vita dei lavoratori e sulle loro prospettive di integrazione sociale. Insomma, lungi dal realizzare quella flexicurity tipica dei Paesi del Nord Europa, ed in particolare della Danimarca, la riforma italiana del 2003 ha realizzato una flessibilità finalizzata a soddisfare soltanto l’interesse dell’imprenditore. Peraltro, non poche figure contrattuali nuove non hanno trovato pressoché alcuna applicazione: le imprese non hanno quasi mai fatto ricorso al “lavoro a chiamata”, al “contratto di inserimento”, al “lavoro ripartito”. Già soltanto per questo motivo il Decreto Legislativo 276/2003 avrebbe dovuto essere abrogato; in Italia, nel periodo precedente le elezioni del 2006 molte sono state le polemiche circa l’opportunità di mantenere almeno in parte la riforma del 2003, ovvero la necessità di una sua totale abrogazione. Probabilmente, sarebbe stato necessario un gesto simbolico, per spazzare via dall’ordinamento giuridico e dal mercato del lavoro l’effetto precarizzante e di compressione dei diritti dei lavoratori, che la legge ha introdotto e che è ben presente anche ai non “addetti ai lavori”, per poi ricostruire l’impianto della normativa in tema di rapporto di lavoro su basi completamente diverse; ma ciò non è avvenuto, nonostante la vittoria delle elezioni da parte della coalizione di centro-sinistra. In realtà, il Governo di centro-sinistra ha unicamente sottoscritto il Protocollo sul Welfare nel luglio 2007, ed ha approvato subito dopo la legge 247 del 23.12.2007: sono stati eliminati soltanto il contratto atipico di lavoro intermittente, ed il contratto di somministrazione di lavoro a tempo indeterminato (invece di una complessiva abrogazione di tutte le figure atipiche). Orbene, la norma più importante introdotta con la legge 247/2007 è stata quella secondo cui “il contratto di lavoro subordinato è stipulato di regola a tempo indeterminato”; tale disposizione è stata inserita in apertura del Decreto Legislativo 368/2001, di attuazione della Direttiva Comunitaria in materia di contratti di lavoro a termine. Tuttavia, occorre evidenziare subito che la legge n. 247/2007 non sembra aver avuto grande fortuna, tenuto conto che le deleghe al governo ivi contenute non sono state attuate, e che pochi mesi dopo, a seguito delle elezioni politiche dell’aprile 2008, si è determinata una pesante inversione di rotta nelle politiche di governo, che sembra foriera di ulteriori ed ancor più consistenti peggioramenti della normativa in materia di lavoro. In particolare, recentemente vi è stata la proposta legislativa n. 1441 quater che appare inquietante perché con essa si tenta di procedere alla marginalizzazione e svuotamento della giurisdizione, attraverso il meccanismo della “certificazione” dei rapporti di lavoro e della sindacabilità dei rapporti da parte del giudice soltanto sotto determinati aspetti, e mediante il ricorso alle cd. clausole compromissorie ed agli arbitrati cui i lavoratori non potrebbero sottrarsi per ricorrere all’autorità giudiziaria.
Verifichiamo, dunque, quali effetti ha avuto l’aumento della precarizzazione dei rapporti di lavoro. Il rapporto annuale Isfol (Istituto per lo Sviluppo della Formazione Professionale dei lavoratori) per l’anno 2007 evidenzia che “il lavoro dipendente a termine, nelle sue molteplici forme (contratto a tempo determinato, apprendistato, interinale, ecc.) riguarda quasi 10 lavoratori su 100. Più contenuta la quota dei collaboratori (co.co.co., a progetto, occasionali) pari complessivamente al 5,7%. Il lavoro atipico riguarda tra i 3,5 e i 4,5 milioni di lavoratori (Indagine Isfol Plus 2006). Nell’accezione minima coinvolge quasi 3,5 milioni di persone, poco più del 15% dell’occupazione, includendo gli occupati a termine (compreso l’apprendistato) e i parasubordinati (occupati autonomi esposti a più vincoli di subordinazione). Se si includono i “part-time involontari” e tutti coloro che non conoscono la tipologia del proprio contratto di lavoro, nel suo insieme la platea della “atipicità massima” è formata da poco più di 4,5 milioni di persone, pari a circa il 20% degli occupati. Non tutti i lavoratori “atipici” si percepiscono come precari; ad esempio il 28% ritiene l’attuale contratto preludio di un rapporto di lavoro permanente ed il 7% lo considera un periodo necessario di pratica e specializzazione professionale.Un dato positivo sta nel fatto che: - la maggior parte del lavoro “precario”, anche reiterato, trova poi sbocco in un lavoro a carattere permanente; -il lavoro dipendente rimane strutturalmente lavoro a prevalente carattere permanente (86,6% dei lavoratori alle dipendenze); - solo il 19% degli occupati teme la perdita del proprio impiego. Se il lavoro “atipico” rappresenta per molti il trampolino di lancio nella vita attiva e nella crescita professionale, per altri può rappresentare una “trappola”: il 48% dei rapporti di lavoro “atipici” sono stati già rinnovati almeno una volta. E’ evidente che, in tale situazione, si è accentuata l’instabilità dei rapporti di lavoro, senza l’introduzione di alcuna forma di welfare (del tipo basic income) e senza alcuna forma di sostegno alle imprese in vista di una maggiore ed effettiva occupazione. Invero, sempre secondo il Censis (Centro Studi Investimenti Sociali), nei primi due trimestri del 2008 si è registrato un aumento delle persone in cerca di occupazione pari al 20,6% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. La mancanza di lavoro ha colpito soprattutto soggetti precedentemente occupati (+27,9%) e persone in cerca di prima occupazione (+5,8%). Dal 2004 al 2007 il tasso di attività femminile è passato dal 50,6% al 50,7%, il tasso di occupazione dal 45,2% al 46,6%, il tasso di disoccupazione dal 10,5% al 7,9%. Tuttavia il dato relativo all’abbassamento dell’indice di disoccupazione risulta, a mio avviso, illusorio, tenuto conto che nel tasso di occupazione vengono inseriti anche i lavoratori cd. precari, ossia con contratti di lavoro atipici e caratterizzati da temporaneità ed instabilità. In tale situazione, altri interventi – e di tipo ben diverso – sarebbero stati necessari: in primo luogo sarebbe stato indispensabile prendere posizione netta sulle forme assistenziali da attribuire ai lavoratori nel corso della loro vita, con forme di basic income chiare e soddisfacenti. In secondo luogo – ed è forse questa la parte più importante, occorreva dare piena attuazione a principi della Costituzione italiana di fondamentale importanza, quali il diritto al lavoro (art. 4), la tutela del lavoro in tutte le sue forme, l’attenzione verso la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori (art. 35), la tutela della giusta retribuzione (art. 36), la tutela della dignità umana in relazione alle modalità in cui si sviluppa l’iniziativa economica privata (art. 41 secondo comma Cost.), in modo da garantire il rispetto della dignità umana in tutte le articolazioni sociali, ed in particolare nella ricerca di una collocazione lavorativa e nello svolgimento della prestazione lavorativa. Alcune recenti proposte legislative hanno evidenziato che le riforme da introdurre dovrebbero andare nella direzione opposta a quella tracciata dalla Legge Biagi e dal Decreto Legislativo 276/2003, e contrastando apertamente quanti vorrebbero far credere che esista un’unica via alla crescita ed allo sviluppo economico, ossia quella che passa per la compressione dei diritti dei lavoratori e per la precarizzazione dei rapporti. Invero, una prima proposta legislativa (a firma di Boeri e Garibaldi) prevede l’eliminazione delle molteplici forme di lavoro, per ricondurre tutte le tipologie ad un’unica figura di rapporto di lavoro a tempo indeterminato, con un lungo periodo di prova (da sei a dodici mesi), ed assistito per i primi tre anni, da tutela solo obbligatoria (risarcimento del danno da due a sei mensilità di retribuzione) in caso di licenziamento per motivi economico-organizzativi del datore di lavoro, e con tutela reale (reintegrazione nel posto di lavoro) soltanto in caso di discriminazione e licenziamento disciplinare ingiustificato (trascorsi i primi tre anni). Una seconda proposta, a firma di Andrea Ichino, prevede la possibilità di prima assunzione con un contratto a termine di durata non inferiore a tre anni, non rinnovabile presso la stessa impresa, ed utilizzabile dal lavoratore fino ad un massimo di tre volte presso imprese diverse; il che significa che il lavoratore potrebbe avere fino a nove anni di lavoro “garantito”, ma non è chiaro se e da chi, al termine dei nove anni, il lavoratore debba essere assunto stabilmente. La terza proposta legislativa, a firma di Leonardi e Pallini, si incentra sull’abrogazione dei nuovi contratti atipici introducendo una sola figura di lavoro dipendente, comprensiva del lavoro subordinato e del lavoro coordinato disciplinati unitariamente; in caso di licenziamento per motivo oggettivo, al lavoratore spetterebbe un’indennità economica ovvero, in alternativa, il diritto di impugnare il licenziamento chiedendo l’applicazione della tutela reale di cui all’art. 18 Statuto dei Lavoratori. In altre proposte si propende per dare forma giuridica alla figura del lavoratore economicamente dipendente(proposta della CGIL); ovvero si punta all’introduzione di forme specifiche di tutela del lavoro autonomo eterodiretto (proposta Smuraglia); ovvero ancora si ripropone uno “statuto dei lavoratori” che prevede tutele diversificate, “a cerchi concentrici” in relazione alle diverse tipologie di rapporto. Non è possibile, a mio avviso, esprimere un giudizio di preferenza rispetto all’uno o all’altro dei progetti legislativi, perché vi sono moltissimi fattori da considerare ed ogni proposta contiene aspetti positivi ed incognite, con possibili ricadute negative sul mercato del lavoro. In ogni caso, la linea-guida per il riordino della materia deve essere, a mio avviso, quella dettata dall’art. 35 della Costituzione italiana, secondo cui “la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”. In conclusione, l’anomalia italiana nell’individuazione di soluzioni legislative concrete, efficaci e rispettose dei diritti dei lavoratori è sin qui evidente. Le proposte di riforma del diritto del lavoro, ora ricordate, sembrano proprio destinate a rimanere lettera morta, tenuto conto delle tendenze, già ampiamente evidenziate, dell’attuale maggioranza parlamentare e di governo. Ciò posto, la giurisprudenza – in particolare quella della Corte di Cassazione – non ha rinunciato alla sua funzione di attuazione dei principi costituzionali, ed in alcune recenti pronunce ha fatto leva sulla caratteristica della temporaneità dell’esigenza imprenditoriale, per attuare un discrimine tra flessibilità consentita, in quanto determinata da esigenze imprenditoriali eccezionali e temporanee, e flessibilità inaccettabile in quanto produttiva soltanto di precarietà nel lavoro, ad esclusivo vantaggio datoriale. Pertanto, se è vero che la giurisprudenza può emendare gli errori della legislazione, quando questa si pone fuori rotta rispetto alla stella polare della Costituzione, è altrettanto indubitabile che essa non può sostituirsi al legislatore nella determinazione delle politiche in materia di lavoro e nella visione del mercato del lavoro, e che più passa il tempo e più sarà difficile recuperare terreno dal baratro in cui siano finiti. E’ evidente, a questo punto, che appare sempre più indispensabile porre mano ad una riforma delle tipologie contrattuali che tenga conto delle politiche europee in materia di lavoro e si ponga, responsabilmente, il problema di un accesso garantito dei lavoratori al mercato del lavoro, tutelando con misure equipollenti tutte le forme di lavoro e prevedendo anche, attraverso istituti quali il basic income, strumenti di welfare che garantiscano “reddito per tutti/e socialità”. L’augurio è pertanto che la legislazione italiana riesca a trovare all’esterno, e possibilmente nel panorama europeo, le linee direttrici su cui fondare le necessarie riforme nell’ambito del diritto del lavoro.
La situazione italiana, dal punto di vista della produzione di ricchezza, è certamente singolare. Nella relazione annuale del Censis (www.censis.it – relazioni annuali) vi è un’analisi approfondita della situazione; nel comunicato stampa si evidenzia che “due Italie sempre più lontane, a causa delle marcate differenze fra Nord e Sud, compongono una nazione con deprimenti valori medi dei principali indicatori rispetto agli altri grandi Paesi europei. È questa la principale vulnerabilità del sistema che procede verso una silenziosa metamorfosi. L’Italia del Centro-Nord ha un Pil pro-capite (29.445 euro) più elevato di Regno Unito (29.140 euro), Germania (28.068 euro), Francia (27.593 euro) e Spagna (26.519 euro). La nazione Italia, invece, ha il valore più basso per lo scarso apporto meridionale, dove il Pil pro-capite scende a 17.046 euro. Nell’export di beni, sempre pro-capite, siamo già secondi solo alla Germania, ma l’Italia del Centro-Nord supererebbe la media dell’Europa a 27 con 7.835 euro per abitante. Nel Mezzogiorno i diplomati sono il 44,3% della popolazione di 25-64 anni, 39 punti in meno della Germania (83,2%) e 23 punti in meno della Francia (67,4%).”
. E’ nata anche in Italia l’Associazione Basic Income Network Italia; nel sito dell’Associazione, www.bin-italia.org. si evidenzia che nell’ultimo decennio il confronto nazionale ed internazionale sul reddito di cittadinanza (Basic income) ha conosciuto un vibrante sviluppo ed al tempo stesso uno straordinario arricchimento. Il ragionamento collettivo sul tema ha trovato ulteriori connotazioni negli anni nei quali sono divenute egemoni condizioni e modalità produttive che in genere vengono riassunte nell’espressione “post-fordismo”. Il Basic income è diventato, in questo modo, il fulcro attorno al quale diveniva possibile ridisegnare il nuovo statuto delle garanzie non solo del lavoro, ma della cittadinanza. Il reddito di cittadinanza, come è stato spesso definito il Basic Income, pone la questione centrale su cosa siano oggi, a fronte delle trasformazioni sociali e globali, i diritti sociali, cosa significa garanzia di un livello socialmente decoroso di esistenza e della possibilità di scelta e di autodeterminazione dei soggetti sociali. Il dibattito italiano ha goduto di una forte varietà di riferimenti e di ottiche di lettura che bene fa comprendere la sua originalità e ricchezza. È stata centrale, in questo dibattito, proprio l’analisi delle trasformazioni produttive degli ultimi decenni, la cui indagine rappresenta il contributo forse più interessante che il dibattito italiano può offrire al contesto internazionale: si trattava di mettere a disposizione di tutti questa ricchezza e questo sito è stata l’occasione giusta.
|