Motivi della decisione
1. Il ricorso contiene sei motivi di impugnazione.
1.1. Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione della
L. n. 53 del 2000, art.
1 e ss. e del
D.Lgs. n. 115 del 2003, artt.
1
ss. e 32 ss. erronea interpretazione della Legge ex
art. 12 preleggi
e difetto di motivazione. Si lamenta che la Corte d'appello abbia
male interpretato la normativa sul congedo parentale, ritenendo
erroneamente che quest'ultimo debba essere concesso in un caso non
contemplato dalla legge e non giustificato da alcuna ragione, e si
sostiene che, in base alla stessa direttiva europea che ha ptomosso
l'intervento del legislatore nazionale (
direttiva 96/34/CE) nonchè
alla stregua dell'intervento della Corte costituzionale (in
particolare, con la sentenza n. 104 del 2003), l'attribuzione del
diritto all'astensione facoltativa anche al padre lavoratore è
condizionata all'effettivo perseguimento della finalità di
sviluppare in modo armonico la personalità del bambino favorendone
l'inserimento nella famiglia e nella società, mentre la sentenza
impugnata - a dire della ricorrente - ha individuato una ratio legis,
cioè l'esigenza di aiutare l'organizzazione familiare, del tutto
assente nella normativa in esame, che, al contrario, e soprattutto
con riferimento alla disciplina di cui al
D.Lgs. n. 151 del 2001
applicabile nella controversia in esame, intende tutelare, piuttosto,
la paternità assicurando al padre un sostegno economico per
l'accudimento diretto della prole.
1.2. Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli
artt. 437 e 112 c.p.c. e
dell'art. 2697 c.c., nonchè vizio di
motivazione. Si deduce che il lavoratore aveva in primo grado
sostenuto esclusivamente di avere utilizzato il congedo per assistere
la propria bambina e solo in appello, a seguito delle sfavorevoli
acquisizioni istruttorie al riguardo, aveva dedotto di avere comunque
contribuito alle esigenze familiari, così operando una inammissibile
modifica della domanda, che erroneamente - secondo la ricorrente -
non è stata rilevata dal giudice d'appello, in violazione del
divieto di proposizione di nuove domande e del principio di
corrispondenza fra chiesto e pronunciato; il medesimo giudice,
peraltro, è incorso anche nella violazione
dell'art. 2697 c.c.,
avendo mancato di rilevare che nessuna prova il lavoratore aveva
offerto in ordine alla sussistenza delle dedotte esigenze familiari,
soprattutto in relazione al ruolo e alla presenza della moglie
all'interno della famiglia.
1.3. Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione
dell'art. 2104 c.c. e vizio di motivazione, lamentandosi che la Corte
di merito abbia erroneamente ritenuto che la richiesta di congedo
escluda di per sè ogni possibile controllo in ordine alla
corrispondenza causale fra ragioni dell'assenza dal lavoro e
attività da lui svolta.
1.4. Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione
dell'art. 2106 c.c. e vizio di motivazione, deducendosi che la
illiceità del comportamento del M. ha integrato una giusta
causa di licenziamento, avendo determinato il venir meno della
fiducia datoriale e il pericolo di disincentivazione degli altri
dipendenti.
1.5. Il quinto motivo denuncia violazione della
L. n. 604 del 1966 e
difetto di motivazione, per non avere i giudici di merito esaminato -
anche d'ufficio - la sussistenza, almeno, di un giustificato motivo
di licenziamento, sotto il profilo della gravita dell'inadempimento
del contratto di lavoro.
1.6. Il sesto motivo denuncia violazione e falsa applicazione
dell'art. 1227 c.c. e vizio di motivazione, lamentandosi, in
subordine, che la Corte territoriale nella determinazione del
risarcimento non abbia tenuto conto di compensi e retribuzioni
percepiti dal M. prima e dopo del licenziamento.
2. Per ordine logico deve esaminarsi dapprima il secondo motivo, che
involge la stessa ammissibilità in appello delle questioni decise
dalla Corte di merito.
Il motivo non è fondato.
La sentenza impugnata, nell'accogliere l'appello del M., ha
ritenuto che questi avesse legittimamente esercitato il diritto al
congedo parentale, alla stregua di un'interpretazione della relativa
disciplina normativa che riconnette tale diritto esclusivamente ad
un'esigenza di organizzazione familiare. Così ritenendo, i giudici
d'appello hanno conseguentemente escluso la sussistenza della giusta
causa di licenziamento - identificata appunto, secondo la
contestazione datoriale, nella illecita utilizzazione di tale congedo
- a prescindere da ogni accertamento relativo alla durata, all'orario
e alle modalità dell'attività svolta dal lavoratore, nel periodo di
congedo, presso la pizzeria intestata alla moglie. Tale
interpretazione è stata dunque ammissibilmente operata dal giudice
d'appello nell'ambito del principio jura novit curia e, perciò,
prescindendo dalla tempestività e novità della relativa allegazione
della parte interessata; e, peraltro, nessuna violazione del
principio dell'onere della prova risulta verificata, poichè la
controversia è stata decisa solo in punto di diritto, con
assorbimento delle questioni riguardanti la valutazione delle prove
in ordine alla presenza del M. e della moglie presso
l'azienda di quest'ultima.
3. Il primo e il terzo motivo, congiuntamente esaminati perchè
intimamente connessi, sono invece fondati non potendosi condividere
la predetta interpretazione fornita dalla Corte territoriale.
3.1. Una sommaria ricognizione del contesto normativo riguardante le
prestazioni previdenziali e assistenziali connesse alla protezione
sociale della famiglia consente di rilevare, anzitutto, che la
giurisprudenza costituzionale ha affermato, fin dagli anni ottanta,
l'operatività della garanzia costituzionale - precipuamente riferita
all'art. 31 Cost. - anche in situazioni indipendenti dall'evento
della maternità naturale, riferibili anche alla paternità, sul
presupposto che la tutela assolve anche alle esigenze di carattere
relazionale ed affettivo che sono collegate allo sviluppo della
personalità del bambino (e che vanno soddisfatte anche nel caso
dell'affidamento, garantendo una paritetica partecipazione di
entrambi i coniugi alla cura ed educazione della prole, senza
distinzione o separazione dei ruoli fra uomo e donna) (cfr. Corte
cost. n. 1 del 1987; n. 179 del 1993).
La successiva evoluzione del quadro normativo, secondo le linee
indicate da questa giurisprudenza, ha portato - in base alla delega
contenuta nella
L. 8 marzo 2000, n. 53 - alla introduzione del testo
unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno
della maternità e della paternità, di cui al
D.Lgs. 26 marzo 2001,
n. 151.
La
L. n. 53 del 2000, art.
1, lett. a), prevede l'istituzione dei
congedi dei genitori in relazione alla generale finalità di
promuovere il sostegno della maternità e della paternità.
Il
D.Lgs. n. 151 del 2001, art.
32 prevede i congedi parentali e
dispone che per ogni bambino, nei suoi primi otto anni di vita,
ciascun genitore ha diritto di astenersi dal lavoro; tale diritto
compete: alla madre lavoratrice, trascorso il periodo di congedo di
maternità, per un periodo continuativo o frazionato non superiore a
sei mesi (comma 1, lett. a); al padre lavoratore, dalla nascita del
figlio, per un periodo continuativo o frazionato non superiore a sei
mesi (comma 1, lett. b). Il congedo parentale spetta al genitore
richiedente anche qualora l'altro genitore non ne abbia diritto
(comma 4); ai fini dell'esercizio del diritto il genitore è tenuto,
salvi i casi di oggettiva impossibilità, a preavvisare il datore di
lavoro secondo modalità e criteri definiti dai contratti collettivi,
e comunque con un periodo di preavviso non inferiore a quindici
giorni (comma 3). Per i periodi di congedo parentale alle lavoratoci
e ai lavoratori, è dovuta un'indennità, calcolata in misura
percentuale sulla retribuzione secondo le modalità previste per il
congedo di maternità (art. 34, commi 1 e 4).
Alla stregua di tale disciplina, il congedo parentale - nella specie,
spettante al padre lavoratore - si configura come un diritto
potestativo costituito dal comportamento con cui il titolare realizza
da solo l'interesse tutelato e a cui fa riscontro, nell'altra parte,
una mera soggezione alle conseguenze della dichiarazione di volontà.
Tale diritto, in particolare, viene esercitato, con il solo onere del
preavviso, sia nei confronti del datore di lavoro, nell'ambito del
contratto di lavoro subordinato, con la conseguente sospensione della
prestazione del dipendente, sia nei confronti dell'ente
previdenziale, nell'ambito del rapporto assistenziale che si
costituisce ex lege per il periodo di congedo, con il conseguente
obbligo del medesimo ente di corrispondere l'indennità.
3.2. Come riconoscono gli stessi giudici di appello, la
configurazione di tale diritto non esclude la verifica delle
modalità del suo esercizio, per mezzo di accertamenti probatori
consentiti dall'ordinamento, ai fini della qualificazione del
comportamento del lavoratore negli ambiti suddetti (quello del
rapporto negoziale e quello del rapporto assistenziale). Tale
verifica, che nella fattispecie è stata compiuta soprattutto in base
alle stesse dichiarazioni del lavoratore e secondo acquisizioni la
cui validità non è in contestazione fra le parti, trova
giustificazione, sul piano sistematico, nella considerazione che -
precipuamente nella materia in esame - anche la titolarità di un
diritto potestativo non determina mera discrezionalità e arbitrio
nell'esercizio di esso e non esclude la sindacabilità e il controllo
degli atti - mediante i quali la prerogativa viene esercitata - da
parte del giudice, il cui accertamento può condurre alla
declaratoria di illegittimità dell'atto e alla responsabilità
civile dell'autore, con incidenza anche sul rapporto contrattuale. La
configurazione e i limiti di questo controllo giudiziale sono stati
oggetto di una precisa evoluzione nella giurisprudenza di questa
Corte, che, in virtù della crescente valorizzazione dei principi di
correttezza e buona fede e della operatività di essi in sinergia con
il valore costituzionale della solidarietà (in particolare con
riferimento ai rapporti di credito e debito nascenti dal negozio:
cfr. Cass. n. 10511 del 1999 e Cass., sez. un., n. 18128 del 2005, in
materia di determinazione e riduzione della clausola penale), ha
anche segnato limiti e criteri dell'esercizio del diritto nell'ambito
del processo, identificando forme eccedenti, o devianti, rispetto
alla tutela dell'interesse sostanziale, che l'ordinamento riconosce
al titolare del diritto e che costituisce la ragione
dell'attribuzione al medesimo titolare della potestas agendi (cfr.
Cass., sez. un., n. 23726 del 2007, in materia di frazionamento della
domanda di adempimento di un'unica pretesa creditoria).
3.3. Ma, più in generale, si deve osservare che l'individuazione,
sempre più frequente nel ed. diritto applicato, di singole
fattispecie riconducibili a tale sviamento, derivanti dallo sviluppo
del quadro normativo e dalla complessità delle tutele riconosciute
ai soggetti, anche in relazione all'attuazione di principi
costituzionali e all'incidenza di norme e criteri di diritto
internazionale che interagiscono con l'ordinamento interno, richiede
- come la dottrina non ha mancato di rilevare - una concezione dei
diritti soggettivi, e di tutte le prerogative che sono oggetto di
riconoscimento normativo, fondata ormai sulla precisa identificazione
delle sostanziali funzioni che la norma positiva attribuisce al
diritto soggettivo e delle conseguenze, non meramente risarcitorie,
che ricadono sul rapporto giuridico per effetto della deviazione da
tali funzioni, secondo una costruzione ben diversa da quella
tradizionalmente adottata, che colloca invece il predetto sviamento
fuori dall'ambito del diritto soggettivo e finisce per qualificarlo
come un normale illecito, in quanto integrante un eccesso dal
diritto.
Orbene, si deve ritenere in generale che quante volte esista un
diritto soggettivo si configura necessariamente una corrispondenza
oggettiva fra il potere di autonomia conferito al soggetto e Fatto di
esercizio di quel potere, secondo un legame che è ben evidente nella
ed. autonomia funzionale i cui poteri sono positivamente esercitati
in funzione della cura di interessi determinati, come avviene
normalmente nell'autonomia pubblica ma come avviene anche, sempre
più diffusamente, nell'autonomia privata, ove l'esercizio del
diritto soggettivo non si ricollega più alla attuazione di un potere
assoluto e imprescindibile ma presuppone un'autonomia, libera,
comunque collegata alla cura di interessi, soprattutto ove si tratti
- come nella specie - di interessi familiari tutelati nel contempo
nell'ambito del rapporto privato e nell'ambito del rapporto con
l'ente pubblico di previdenza, si che il non esercizio o l'esercizio
secondo criteri diversi da quelli richiesti dalla natura della
funzione può considerarsi abuso in ordine a quel potere pure
riconosciuto dall'ordinamento. E ben s'intende come la immanenza di
una siffatta funzione in ogni diritto, e massimamente in quelli che
corrispondono a interessi, non meramente economici,
costituzionalmente protetti, non richiede una previsione specifica,
con una positiva regolamentazione: e ciò spiega perchè, in via
eccezionale, tale specificità sia stata invece richiesta, con il
divieto di atti emulativi previsto dall'ari. 833 del codice civile,
in relazione alla ampiezza e al contenuto del diritto di proprietà e
alla correlativa esigenza di riconoscere un limite funzionale a un
potere tradizionalmente illimitato, imprescrittibile e comprensivo
dello jus abutendi, sino alla costituzionalizzazione della sua
funzione sociale (
art 42 Cost.).
L'abuso del diritto, così inteso, può dunque avvenite sotto forme
diverse, a seconda del rapporto cui esso inerisce, sicchè, con
riferimento al caso di specie, rileva la condotta contraria alla
buona fede, o comunque lesiva della buona fede altrui, nei confronti
del datore di lavoro, che in presenza di un abuso del diritto di
congedo si vede privato ingiustamente della prestazione lavorativa
del dipendente e sopporta comunque una lesione (la cui gravita va
valutata in concreto) dell'affidamento da lui riposto nel medesimo,
mentre rileva l'indebita percezione dell'indennità e lo sviamento
dell'intervento assistenziale nei confronti dell'ente di previdenza
erogatore del trattamento economico.
3.4. In base al descritto criterio della funzione, deve ritenersi
verificato un abuso del diritto potestativo di congedo parentale, di
cui al D.Lgs. n. 115 del 2001, art. 32, comma 1, lett. b), allorchè
il diritto venga esercitato non per la cura diretta del bambino,
bensì per attendere ad altra attività di lavoro, ancorchè
incidente positivamente sulla organizzazione economica e sociale
della famiglia.
Anche per tale congedo, infatti, si configura una ratio del tutto
analoga a quella delineata dalla Corte costituzionale nelle pronunce
che, come s'è visto, hanno storicamente influenzato le scelte del
legislatore nella emanazione della Legge delega del 2000 e del
successivo testo unico del 2001: in particolare, con le sentenze n.
104 del 2003, n. 371 del 2003 e n. 385 del 2005 i giudici
costituzionali hanno ribadito come la tutela della paternità si
risolva in misure volte a garantire il rapporto del padre con la
prole in modo da soddisfare i bisogni affettivi e relazionali dei
bambino al fine dell'armonico e sereno sviluppo della sua
personalità e del suo inserimento nella famiglia; tutte esigenze
che, richiedendo evidentemente la presenza del padre accanto al
bambino, sono impedite dallo svolgimento dell'attività lavorativa e
impongono pertanto la sospensione di questa, affinchè il padre
dedichi alla cura del figlio il tempo che avrebbe invece dovuto
dedicare al lavoro. Si comprende, allora, che una siffatta
conversione delle ore di lavoro, se pure non deve essere intesa alla
stregua di una rigida sovrapponibilità temporale, non può però
ammettere un'accudienza soltanto indiretta, per interposta persona,
mediante il solo contributo ad una migliore organizzazione della vita
familiare, poichè quest'ultima esigenza può essere assicurata da
altri istituti (contrattuali o legali) che solo indirettamente
influiscono sulla vita dei bambino e che, in ogni caso, mirano al
soddisfacimento di necessità diverse da quella tutelata con il
congedo parentale, il quale non attiene ad esigenze puramente
fisiologiche del minore ma, specificamente, intende appagare i suoi
bisogni affettivi e relazionali onde realizzare il pieno sviluppo
della sua personalità sin dal momento dell'ingresso nella famiglia.
Con questi presupposti, si rivela insostenibile, nella controversia
in esame, la tesi della realizzazione di tali esigenze della figlia
minorenne attraverso lo svolgimento di attività lavorativa, da parte
del padre in congedo, nella pizzeria della moglie. Al contrario,
esclusa tale possibilità e considerato che il legittimo esercizio
del congedo postula la presenza dei padre accanto alla propria
bambina, sarebbe stato necessario valutare le risultanze istruttorie
acquisite in giudizio onde accertare se e con quali modalità tale
presenza si sia realizzata e come siano state utilizzate, in
concreto, le ore della giornata rese disponibili per effetto del
congedo.
3.5. Devono accogliersi, perciò, le censure della società
ricorrente contenute nel primo e nei terzo motivo, mentre restano
assorbite le censure di cui ai motivi quarto, quinto e sesto.
3.6. La sentenza impugnata va dunque cassata in relazione ai motivi
accolti e la causa va rinviata ad altro giudice d'appello, designato
nella Corte d'appello di Brescia, il quale procederà a nuovo esame
della controversia attenendosi al seguente principio di diritto:
"Il
D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, att. 32, comma 1, lett. b), nel
prevedere - in attuazione della Legge - delega 8 marzo 2000, n. 53 -
che il lavoratore possa astenersi dal lavoro nei primi otto anni di
vita del figlio, percependo dall'ente previdenziale un'indennità
commisurata ad una parte della retribuzione, configura un diritto
potestativo che il padre-lavoratore può esercitare nei confronti del
datore di lavoro, nonchè dell'ente tenuto all'erogazione
dell'indennità, onde garantire con la propria presenza il
soddisfacimento dei bisogni affettivi del bambino e della sua
esigenza di un pieno inserimento nella famiglia; pertanto, ove si
accerti che il periodo di congedo viene invece utilizzato dal padre
per svolgere una diversa attività lavorativa, si configura un abuso
per sviamento dalla funzione propria del diritto, idoneo ad essere
valutato dal giudice ai fini della sussistenza di una giusta causa di
licenziamento, non assumendo rilievo che lo svolgimento di tale
attività (nella specie, presso una pizzeria di proprietà della
moglie) contribuisca ad una migliore organizzazione della famiglia".
Il medesimo giudice di rinvio pronuncerà altresì sulle spese del
giudizio di cassazione.