SENTENZA N.
21
ANNO
2009
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO
ITALIANO
LA
CORTE COSTITUZIONALE
composta dai
signori:
- Giovanni
Maria FLICK
Presidente
- Francesco
AMIRANTE
Giudice
- Paolo
MADDALENA
"
- Alfio
FINOCCHIARO
"
- Alfonso
QUARANTA
"
- Franco
GALLO
"
- Luigi
MAZZELLA
"
- Gaetano
SILVESTRI
"
- Sabino
CASSESE
"
- Maria Rita
SAULLE
"
- Giuseppe
TESAURO
"
- Paolo Maria
NAPOLITANO
"
- Giuseppe
FRIGO
"
- Alessandro
CRISCUOLO
"
ha pronunciato
la seguente
SENTENZA
nel giudizio
di legittimità costituzionale dell'articolo 12, comma 1, del
decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni
concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla
condizione dello straniero), come sostituito dall'art.
11, comma 1, della legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla
normativa in materia di immigrazione e di asilo), promosso con
ordinanza del 17 marzo 2008 dal G.U.P. del Tribunale di Torino
nel procedimento penale a carico di M.I., iscritta al n. 253
del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 36, prima serie speciale, dell'anno
2008.
Visto
l'atto di
intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nella Camera di consiglio
del 3 dicembre 2008 il Giudice relatore Maria Rita
Saulle.
Ritenuto in
fatto
1. – Con
ordinanza emessa il 17 marzo 2008, il Giudice dell'udienza
preliminare del Tribunale di Torino ha sollevato, in
riferimento agli artt. 25 e 35, quarto comma, della
Costituzione, questione di legittimità costituzionale
dell'art. 12, comma 1, del decreto legislativo 25 luglio 1998,
n. 286 (Testo unico delle
disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e
norme sulla condizione dello straniero), come
sostituito dall'art. 11, comma 1, della legge 30 luglio 2002,
n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e
di asilo), nella parte in cui sottopone a pena chiunque compia
«atti diretti a procurare l'ingresso illegale in altro Stato
del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di
residenza permanente».
Il
rimettente – investito della richiesta di rinvio a giudizio di
una persona imputata, in concorso con altre, del reato di
favoreggiamento della migrazione clandestina previsto
dall'art. 12, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998 – premette
che nella condotta del giudicabile dovrebbe ravvisarsi, in
realtà, il meno grave delitto di cui alla seconda parte del
comma 1 del medesimo articolo.
Alla
stregua delle risultanze processuali, difatti, l'imputato si
sarebbe limitato a favorire, una tantum,
l'emigrazione clandestina di alcuni conoscenti verso
l'Inghilterra, prendendo contatto con un gruppo di «passeurs» ed
accompagnando indi gli interessati nel luogo convenuto
affinché potessero salire clandestinamente su un treno.
Inoltre non risulta che lo stesso abbia percepito denaro in
cambio dell'aiuto prestato. Quanto alle persone favorite, esse
non erano state, a loro volta, identificate e si sapeva
soltanto che la loro prima destinazione sarebbe dovuta essere
l'Inghilterra in considerazione del mezzo di trasporto
utilizzato.
Mancherebbero, dunque, i presupposti per la
configurabilità della fattispecie “qualificata” di
favoreggiamento, prevista dal comma 3 dell'art. 12 del d.lgs.
n. 286 del 1998: fattispecie, che avrebbe natura di reato
autonomo e non di circostanza aggravante del delitto delineato
dal comma 1. Trattandosi di aiuto all'emigrazione prestato
individualmente, in modo occasionale e senza fine di lucro,
esso integrerebbe il reato di favoreggiamento “semplice”
descritto dal citato comma 1, che – nel testo sostituito
dall'art. 11, comma 1, della legge n. 189 del 2002
(applicabile nella specie, essendo il fatto del marzo 2003) –
punisce chi compie «atti diretti a procurare l'ingresso
illegale in altro Stato del quale la persona non è cittadina o
non ha titolo di residenza
permanente».
Avuto
riguardo, poi, all'ordinanza n. 445 del 2004, con cui questa
Corte – già investita della questione di costituzionalità nel
medesimo giudizio principale – ha disposto la restituzione
degli atti al rimettente per ius superveniens, il
giudice a quo
rimarca come la rilevanza del quesito non sia venuta meno per
effetto della sopravvenuta modifica dell'art. 12 del d.lgs. n.
286 del 1998, operata dall'art. 1-ter del decreto-legge
14 settembre 2004, n. 241 (Disposizioni urgenti in materia di
immigrazione), convertito, con modificazioni, nella legge 12
novembre 2004, n. 271. A seguito della novella,
la commissione del fatto da parte di «tre o più persone in
concorso tra loro o utilizzando servizi internazionali di
trasporto ovvero documenti contraffatti o alterati o comunque
illegalmente ottenuti» non costituisce più – come in
precedenza – elemento costitutivo della fattispecie di cui al
comma 3 dell'art. 12, ma circostanza aggravante riferibile ad
entrambe le ipotesi criminose: tanto, cioè, al favoreggiamento
«semplice» (comma 1), quanto al favoreggiamento «a scopo di
profitto» (comma 3). La struttura della norma incriminatrice
applicabile nel caso di specie (quella del comma 1) sarebbe
rimasta, dunque, inalterata: ciò a prescindere dall'avvenuto
inasprimento della pena edittale, comunque inoperante nel
giudizio a quo,
trattandosi di modifica sfavorevole successiva alla
commissione del reato.
Quanto
alla non manifesta infondatezza della questione, il rimettente
osserva che l'incriminazione del favoreggiamento della
migrazione illegale verso l'estero – non contemplata nel testo
originario dell'art. 12 – è stata introdotta dalla legge n.
189 del 2002, in aggiunta a quella per
favoreggiamento dell'immigrazione illegale in Italia, al fine
di colmare un vuoto normativo, che impediva di reprimere, ex se, l'attività di
«gestione» del traffico dei migranti clandestini nel
territorio nazionale, nel caso in cui questa non comportasse
il favoreggiamento dell'ingresso o della permanenza illegale
degli stranieri in Italia.
Tale
attività – di «gestione» del traffico dei migranti – è stata,
di contro, ritenuta meritevole di sanzione penale, perché
potenzialmente pericolosa per l'ordine pubblico ed espressiva
del fenomeno dello sfruttamento della migrazione
clandestina.
A tale
scopo, la seconda parte del comma 1 dell'art. 12 delinea,
peraltro, un reato «a soglia di tutela anticipata» e «a
condotta libera», connotato – secondo il rimettente – da un
unico elemento «tipizzante», ossia dal requisito di «illiceità
speciale», costituito dalla «illegalità» dell'ingresso nello
Stato estero. Solo tale «illegalità» renderebbe, infatti,
antigiuridica una condotta che altrimenti si risolverebbe
nella mera agevolazione dell'esercizio di un «diritto della
persona», quale quello di emigrare dal territorio italiano
verso altri Stati.
A
differenza, tuttavia, di quanto avviene per il favoreggiamento
dell'immigrazione, rispetto al favoreggiamento
dell'emigrazione il carattere della «illegalità» andrebbe
stabilito facendo riferimento non già alle disposizioni del
d.lgs. n. 286 del 1998, ma alla normativa del Paese estero di
destinazione del migrante, ammesso che tale Paese sia
individuabile con certezza: circostanza, quest'ultima, per
nulla «scontata», stante la struttura della norma
incriminatrice, la quale punisce anche i semplici «atti
diretti» a procurare l'ingresso in altro Stato,
indipendentemente dal risultato
conseguibile.
La norma
suddetta potrebbe definirsi come norma penale «in bianco», il
cui precetto si ricava mediante il rinvio ad una legge
straniera: e ciò in violazione tanto della riserva di legge
sancita dall'art. 25 Cost., quanto del principio di
tassatività e determinatezza delle norme
incriminatrici.
Ad avviso
del rimettente, la carenza di determinatezza della fattispecie
criminosa de qua
non potrebbe essere “sanata” neppure valorizzando le modalità
concrete della condotta, e, cioè, ritenendo che la norma
punisca l'agevolazione a lasciare il territorio nazionale con
modalità «clandestine». Tale soluzione interpretativa
porterebbe, difatti, ad una «pericolosa confusione di piani»,
posto che l'emigrazione in condizione di «illegalità» – vista
nell'ottica della legge italiana, e dunque, in pratica,
riferita a chi si trova in Italia come clandestino – non è
destinata a sfociare, sempre e comunque, in una situazione di
clandestinità rispetto a qualunque Paese straniero: ciò in
quanto il migrante potrebbe appartenere ad una delle categorie
di persone cui lo Stato di destinazione consente
l'acquisizione di un titolo di residenza permanente (minori,
richiedenti asilo, coniugi o parenti di cittadini del Paese
estero di destinazione). Così intesa, dunque, la fattispecie
criminosa – che si configura come reato a consumazione
anticipata – finirebbe per colpire una «illegalità» solo
futura ed eventuale.
Lo status di clandestino
in Italia comporterebbe che non vengano utilizzati, ove
necessari, documenti validi per l'espatrio: sicché –
nell'anzidetta prospettiva ermeneutica – qualsiasi atto
diretto ad agevolare l'emigrazione di chi non si trovi
regolarmente sul territorio italiano risulterebbe passibile di
sanzione penale, persino ove miri a permettere al soggetto
favorito di rientrare nel Paese d'origine senza doversi
«autodenunciare» come clandestino, ove il rimpatrio non possa
avvenire se non attraversando altri Stati
esteri.
Proprio
per evitare tale risultato «paradossale», la giurisprudenza di
legittimità sarebbe stata «costretta» – secondo il rimettente
– a «singolari oscillazioni» nelle prime applicazioni della
nuova disciplina. In talune pronunce, infatti, la Corte di
cassazione ha escluso la configurabilità del reato quando
l'ingresso nello Stato straniero, oggetto di agevolazione,
abbia carattere solo momentaneo o provvisorio. In altre
decisioni, al contrario, la stessa
Corte ha ritenuto irrilevante che detto
ingresso fosse finalizzato all'attraversamento del territorio
dello Stato estero per raggiungere il Paese d'origine: e ciò
in base alla considerazione che, diversamente opinando,
l'integrazione del reato per il favoreggiatore verrebbe a
dipendere dalle «dichiarazioni di intenti» del soggetto
favorito, senza che vi sia modo di controllare né la serietà
dell'intenzione dichiarata, né la sua effettiva
realizzazione.
A parere
del giudice a quo,
la giurisprudenza più recente si sarebbe peraltro orientata –
tanto in rapporto alla fattispecie «semplice» di cui al comma
1 dell'art. 12, che a quella «qualificata» del comma 3 –
proprio nel senso di far dipendere la configurabilità del
reato dalle «dichiarazioni di intenti» del migrante circa la
sua destinazione finale e dal «tasso di affidabilità» di
queste ultime.
Le
operazioni ermeneutiche ora ricordate renderebbero, peraltro,
ancor più evidente la denunciata lesione del principio di
determinatezza, rivelando come la norma censurata sia
suscettibile di generare «pericolosi divari interpretativi»,
legati non già alla valutazione della condotta del soggetto
agente, ma alla vicenda concreta del soggetto favorito;
situazione, questa, da ritenere «inaccettabile» sul piano del
rispetto del principio costituzionale in
parola.
Sempre per
il giudice a quo,
la norma impugnata si porrebbe in contrasto con l'art. 35,
quarto comma, Cost., che riconosce, come diritto della
persona, la libertà di emigrazione. Se pure, infatti, il
precetto costituzionale contiene una «riserva di legge», la
compressione dell'anzidetto diritto – compressione che
verrebbe di fatto attuata, allorché si punisce l'agevolatore –
dovrebbe ritenersi consentita solo in presenza di condizioni
eccezionali, collegate a situazioni di pericolosità o ad
esigenze di tutela dell'ordine pubblico, non ravvisabili in
rapporto alla fattispecie oggetto di
censura.
2. – È
intervenuto nel giudizio di costituzionalità il Presidente del
Consiglio dei ministri, chiedendo che la questione sia
dichiarata manifestamente
infondata.
Quanto
all'asserita violazione dell'art. 25 Cost., la difesa erariale
assume che il requisito di illegalità dell'emigrazione,
richiesto dalla disposizione denunciata, troverebbe, in
realtà, «piena e puntuale disciplina» nella normativa
regolamentare – comune ai Paesi interessati – concernente il
«visto uniforme», istituito, ai fini della circolazione delle
persone nel territorio dell'insieme delle Parti contraenti,
dalla Convenzione del 19 giugno 1990, di applicazione
dell'Accordo di Schengen del 14 giugno 1985, ratificata e resa
esecutiva in Italia con la legge 30 settembre 1993, n.
388.
Un
problema di costituzionalità della norma – sotto il profilo
del rinvio «in bianco» a discipline straniere, in ipotesi
ignote agli organi giurisdizionali, oltre che ai destinatari
delle stesse – potrebbe porsi, secondo l'Avvocatura generale
dello Stato, solo rispetto ai Paesi non appartenenti all'«Area
Schengen» e per i quali manchino, altresì, convenzioni o
accordi internazionali ratificati, relativi all'ingresso di
cittadini degli Stati contraenti: ipotesi, queste, che non
verrebbero peraltro in rilievo nel giudizio a
quo.
Quanto,
poi, alla pretesa compromissione dell'art. 35, quarto comma,
Cost., sarebbe sufficiente osservare che la norma
incriminatrice in esame concerne la tematica
dell'immigrazione, e non quella dell'emigrazione, avendo
riguardo ad ipotesi nelle quali «lo Stato italiano funga da
tramite, o da ponte», rispetto «a fenomeni migratori da e per
Stati esteri».
Considerato in
diritto
1. – Il
Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Torino
dubita della legittimità costituzionale dell'art. 12, comma 1,
del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni
concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla
condizione dello straniero), come sostituito dall'art.
11, comma 1, della legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla
normativa in materia di immigrazione e di asilo), nella parte
in cui punisce chi «compie atti diretti a procurare l'ingresso
illegale in altro Stato del quale la persona non è cittadina o
non ha titolo di residenza
permanente».
La
disposizione censurata violerebbe, in primo luogo, l'art. 25
della Costituzione, in rapporto tanto al principio della
riserva di legge in materia penale che a quello della
tassatività e determinatezza delle norme incriminatrici. Essa
delineerebbe, difatti, un reato «a condotta libera», avente,
quale unico elemento «tipizzante», il requisito di «illiceità
speciale» rappresentato dalla illegalità dell'ingresso in
altro Stato del soggetto favorito: illegalità, che dovrebbe
essere peraltro stabilita, non in base alla legge italiana, ma
alla normativa dello Stato estero di destinazione del migrante
da questa richiamata, spesso neppure individuabile con
certezza, stante la configurazione della fattispecie come
delitto a consumazione anticipata, che punisce i semplici
«atti diretti» a procurare l'emigrazione, a prescindere
dall'eventuale conseguimento dell'obiettivo.
La norma
impugnata lederebbe, altresì, l'art. 35, quarto comma, Cost.,
in quanto limiterebbe il diritto all'emigrazione a prescindere
da esigenze di tutela dell'ordine pubblico o da situazioni di
pericolosità: esigenze e situazioni, in presenza delle quali
soltanto la compressione del suddetto diritto potrebbe
ritenersi consentita.
2. – La questione non è
fondata.
3. – Quanto alla
dedotta violazione dell'art. 25 Cost., il rimettente muove da
un presupposto in sé corretto: e, cioè, che la disposizione
sottoposta a scrutinio postuli valutazioni giuridiche da
operare alla stregua di norme
extranazionali.
Appare, in effetti,
indubitabile che – al di là del preliminare riferimento,
contenuto nell'art. 12, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998,
alla «violazione delle disposizioni del presente testo unico»
– l'illegalità dell'ingresso in altro Stato vada verificata
alla stregua della disciplina dello Stato in cui il soggetto
favorito intende recarsi e non già della
normativa interna.
La
conclusione è puntualmente confermata dalle disposizioni
comunitarie e dalle convenzioni internazionali alle quali
l'incriminazione del favoreggiamento dell'emigrazione illegale
verso l'estero si presenta connessa, in quanto fonti di
obblighi per lo Stato italiano di repressione del fenomeno
considerato. Così, in particolare, l'art. 1, paragrafo 1,
lettera a), della
direttiva 2002/90/CE del 28 novembre 2002 (Direttiva del
Consiglio volta a definire il favoreggiamento dell'ingresso,
del transito e del soggiorno illegali) stabilisce – sulla
falsariga, in parte
qua, dell'art. 27, paragrafo 1, della Convenzione di
Schengen del 19 giugno 1990 (abrogato dall'art. 5 della citata
direttiva) – che gli Stati membri debbano adottare «sanzioni
appropriate» nei confronti di chiunque intenzionalmente aiuti
una persona, che non sia cittadino di uno Stato membro, ad
entrare o a transitare nel territorio di uno Stato membro «in
violazione della legislazione di detto Stato» relativa
all'ingresso o al transito degli
stranieri.
Analogamente, l'art. 3, lettera b), del Protocollo
addizionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro il
crimine organizzato transnazionale al fine di combattere il
traffico illecito dei migranti per via terrestre, marittima ed
aerea, adottata dall'Assemblea generale il 15 novembre 2000,
ratificata e resa esecutiva con legge 16 marzo 2006, n. 146,
prevede che per «ingresso illegale» di una persona in uno
Stato parte, di cui la persona stessa non è cittadina o
residente permanente – il cui favoreggiamento gli Stati parte
si impegnano a prevedere come reato, nei casi indicati
dall'art. 6 – debba intendersi «il varcare i confini senza
soddisfare i requisiti necessari per l'ingresso legale nello
Stato di accoglienza».
Può
aggiungersi che, nella norma incriminatrice sottoposta a
scrutinio, il riferimento alla normativa estera è insito anche
negli elementi negativi della fattispecie, per i quali lo
straniero non deve essere cittadino dello Stato di
destinazione, né avere un «titolo di residenza permanente» in
tale Stato: giacché anche tali condizioni debbono essere
accertate alla luce della disciplina
straniera.
4. –
Prendendo le mosse dalla considerazione ora ricordata, il
rimettente deduce la violazione di due principi, riconducibili
entrambi al disposto dell'art. 25, secondo comma, Cost., ma di
valenza ben diversa: da un lato, quello della riserva di legge
in materia penale (che attiene al sistema delle fonti);
dall'altro lato, quello di determinazione della norma
incriminatrice (che attiene, invece, alle modalità di
descrizione del fatto
incriminato).
Con
riguardo al primo dei due principi, si deve peraltro osservare
che la riserva di legge in materia penale non esclude che il
legislatore possa inserire nella descrizione del fatto
incriminato il riferimento ad elementi “esterni” al precetto
penale aventi il carattere della “normatività” – i cosiddetti
elementi normativi del fatto – postulando, quindi, una
integrazione “eteronoma” della norma incriminatrice. Siffatta
integrazione è sovente insita nelle cosiddette clausole di
illiceità speciale, le quali – come nel caso in esame –
subordinino la reazione punitiva al carattere abusivo,
indebito o illegale di una determinata
condotta.
Gli
elementi e le clausole in questione, per altro verso, possono
implicare non soltanto un richiamo di altre disposizioni di
legge statale (interna) o di atti equiparati, ovvero di fonti
diverse, pur sempre interne, quali leggi regionali (le quali,
peraltro come tali, non possono essere fonti di diritto
penale: ad esempio, in materia urbanistica), regolamenti o
altri atti di normazione secondaria, ma anche, eventualmente,
di norme di ordinamenti stranieri.
Ovviamente, tale integrazione “eteronoma” del precetto
penale non è senza limiti. Con particolare riferimento ai casi
nei quali l'elemento di “riempimento” del precetto è fornito
da una fonte (interna) di rango secondario o da un
provvedimento dell'autorità, la giurisprudenza di questa Corte
è, in effetti, da tempo consolidata nel senso che la
violazione del principio di legalità deve essere esclusa ove
si rinvenga nella legge una sufficiente specificazione dei
presupposti, dei caratteri, del contenuto e dei limiti dei
provvedimenti dell'autorità non legislativa, alla
trasgressione dei quali deve seguire la pena (ex plurimis, sentenze
n. 292 del 2002, n. 333 del 1991 e n. 282 del
1990).
Rispetto
alla ipotesi che qui interessa – nella quale è una normativa
extranazionale a concorrere all'identificazione e a fornire la
base di valutazione della condotta penalmente repressa - le
conclusioni cui si perviene implicano che ai fini del rispetto
della riserva di legge in materia penale, da un lato, deve
essere il legislatore nazionale ad individuare, e in termini
di immediata percepibilità, il “nucleo di disvalore” della
condotta incriminata, che giustifica la reazione punitiva; e,
dall'altro lato, debbono risultare adeguatamente identificate
le norme straniere chiamate ad integrare il
precetto.
Tali
condizioni debbono ritenersi rispettate nel caso che
interessa. Per un verso, infatti, è chiaro quale tipo di
attività il legislatore nazionale intenda reprimere
(favoreggiamento dell'ingresso contra ius di un
soggetto in altro Stato); per un altro verso, risulta adeguata
l'identificazione della disciplina di riferimento, tenuto
conto anche del fatto che l'ingresso in altro Stato è attività
istituzionalmente oggetto di regolamentazione
normativa.
Ritenere
il contrario, significherebbe d'altronde escludere ogni
possibilità di intervento del legislatore penale nella lotta
contro un fenomeno quale il favoreggiamento dell'emigrazione
illegale, che pure forma oggetto – come in precedenza
ricordato – di precisi obblighi di cooperazione
internazionale, per i plurimi interessi che esso lede o pone
in pericolo e per il rilevante allarme sociale che esso
genera: e ciò in quanto, stante il carattere tipicamente
transazionale del fenomeno stesso, non appaiono configurabili
ragionevoli alternative a quella adottata, in parte qua, dalla
norma sottoposta a scrutinio.
5. –
Quanto, poi, alla asserita compromissione del principio di
determinatezza – al quale si riferiscono, in effetti, in larga
prevalenza le censure del giudice a quo – questa Corte
ha avuto modo di affermare come esso risponda a due
fondamentali obiettivi: per un verso, quello di evitare che,
in contrasto con il principio della divisione dei poteri e con
la riserva assoluta di legge in materia penale, il giudice
assuma un ruolo creativo, individuando, in luogo del
legislatore, i confini tra il lecito e l'illecito; e, per
altro verso, quello di garantire la libera autodeterminazione
individuale, permettendo al destinatario della norma penale di
apprezzare a priori
le conseguenze giuridico-penali della propria condotta
(sentenza n. 327 del 2008).
In questa
prospettiva, l'inclusione nella formula descrittiva
dell'illecito di clausole generali o concetti elastici non
comporta un vulnus
del parametro costituzionale evocato quando la descrizione
complessiva del fatto incriminato consenta comunque al giudice
– avuto riguardo alle finalità perseguite dall'incriminazione
ed al più ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca
– di stabilire il significato di tale elemento, mediante
un'operazione interpretativa non esorbitante dall'ordinario
compito a lui affidato; e, correlativamente, permetta al
destinatario della norma di avere una percezione
sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore
precettivo (sentenza n. 5 del
2004).
Alla luce
di ciò, nell'ipotesi in esame il principio di determinatezza
non può ritenersi compromesso. Quale sia la condotta repressa
dalla norma denunciata è, infatti, immediatamente percepibile:
si intende colpire – indipendentemente dal conseguimento
dell'obiettivo – chi agevoli in qualunque modo un'altra
persona (a prescindere dalla regolarità o meno della sua
presenza in Italia) a varcare i confini di altro Stato in
violazione delle norme di tale Stato che regolano l'ingresso
degli stranieri nel proprio
territorio.
L'eventualità – cui accenna il rimettente – che, stante
la configurazione della fattispecie come delitto a
consumazione anticipata, lo Stato di destinazione del migrante
clandestino non risulti individuabile con certezza,
rappresenta una difficoltà di mero fatto nell'applicazione
della norma. In effetti, ove persistesse un insuperabile
dubbio sulla identificazione di detto Stato e, con essa, sul
carattere illegale o meno dell'emigrazione favorita, il
favoreggiatore dovrebbe essere evidentemente
assolto.
Così pure,
del tutto ininfluente sulla determinatezza del precetto appare
il contrasto di giurisprudenza – evocato dal giudice a quo – circa la
configurabilità o meno del reato nel caso in cui l'ingresso
illegale in altro Stato abbia luogo per finalità di mero
transito, in vista del ritorno dello straniero nel Paese di
origine. A prescindere dalla considerazione che,
contrariamente a quanto si legge nell'ordinanza di rimessione,
la giurisprudenza di legittimità più recente appare orientata
a negare rilievo alla destinazione finale dello straniero,
vale osservare che, anche aderendo all'orientamento di segno
opposto, le difficoltà di riscontro delle dichiarazioni del
migrante, circa il presunto intento di far ritorno in patria,
costituiscono, di nuovo, una questione di ordine probatorio e
di mero fatto.
È
parimenti evidente, sotto altro profilo, come i problemi
connessi all'eventuale ignoranza od errore del favoreggiatore
in ordine ai contenuti della normativa straniera, legati alle
difficoltà di conoscenza della stessa, trovino esaustiva
risposta nella disciplina dell'errore, a seconda dei casi, su
legge penale (art. 5 cod. pen., quale risultante a seguito
della sentenza di questa Corte n. 364 del 1988) o extrapenale
(art. 47, terzo comma, cod.
pen.).
6. –
Insussistente si palesa, da ultimo, anche la dedotta
violazione dell'art. 35, quarto comma,
Cost.
La libertà
di emigrazione è riconosciuta dal precetto costituzionale con
salvezza degli «obblighi stabiliti dalla legge nell'interesse
generale», fra i quali possono farsi rientrare quelli di
rispetto della legislazione del Paese di accoglienza, nel
quadro di accordi di cooperazione internazionale volti a
contrastare un fenomeno certamente rilevante anche ai fini
della tutela della sicurezza e dell'ordine pubblico interno,
come quello dei flussi migratori clandestini in
transito.
per questi
motivi
LA CORTE
COSTITUZIONALE
dichiara
non fondata la questione di
legittimità costituzionale dell'art. 12, comma 1, del d.lgs.
25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico
delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione
e norme sulla condizione dello straniero), come
sostituito dall'art. 11, comma 1, della legge 30 luglio 2002,
189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di
asilo), sollevata, in riferimento agli artt. 25 e 35, quarto
comma, della Costituzione, dal Giudice dell'udienza
preliminare del Tribunale di Torino con l'ordinanza indicata
in epigrafe.
Così
deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo
della Consulta, il 26 gennaio
2009.
F.to:
Giovanni Maria
FLICK,
Presidente
Maria
Rita
SAULLE,
Redattore
Giuseppe DI
PAOLA,
Cancelliere
Depositata in
Cancelleria il 30
gennaio
2009.
Il Direttore
della Cancelleria F.to:
DI PAOLA |