Cass. pen., Sez. I, 19/06/2008, n.31171
Svolgimento del processo
1.- Con
decreto del 7/2/2007 il giudice dell'udienza preliminare del
Tribunale di Roma disponeva il rinvio a giudizio davanti alla Corte
d'assise di L.M.L., soldato del contingente militare
USA dislocato con la Forza Multinazionale in territorio iracheno, in
servizio come artigliere al posto di blocco (istituito la sera del
(OMISSIS) al checkpoint (OMISSIS), in corrispondenza dell'intersezione
fra la (OMISSIS) in direzione dell'aeroporto di
(OMISSIS), in attesa del passaggio del convoglio dell'ambasciatore
USA), per rispondere dei reati di omicidio e tentato omicidio in
danno di C.N. e CA.An., funzionari del
SISMI in missione in Iraq per la liberazione di S.G.,
giornalista rapita da un gruppo di terroristi islamici e appena
liberata, e della medesima S., per avere, esplodendo numerosi
colpi d'arma da fuoco con un mitragliatore automatico contro
l'autovettura sulla quale essi viaggiavano, in avvicinamento al posto
di blocco e in direzione dell'aeroporto, cagionato la morte di
C. e il ferimento di CA. e della S..
La Corte di assise di Roma dichiarava con sentenza del 25/10/2007 non
doversi procedere nei confronti del L. per difetto della
giurisdizione italiana, sulla base di un triplice rilievo:
a) innanzi tutto, prevaleva sul criterio di collegamento della
giurisdizione "passiva" il principio consuetudinario di diritto
internazionale della c.d. "legge della bandiera", direttamente
applicabile in virtù
dell'art. 10 Cost., comma 1, per cui è
attribuita in via esclusiva allo Stato di invio di un contingente
militare all'estero la giurisdizione per gli illeciti commessi dal
proprio personale in territorio straniero;
b) il regime di immunità dalla giurisdizione di Stati diversi da
quello di invio trovava conferma sia nella risoluzione n. 1546
dell'8/6/2004 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite,
ritenuta self-executing nel nostro ordinamento, sia nelle allegate
lettere del Primo Ministro iracheno e del Segretario di Stato USA
(coerenti con quanto disposto dall'Ordine 27/6/2004 n. 17 della CPA,
confermato dal successivo Ordine n. 100 del 28/6/2004), nelle quali,
riconoscendosi la fine dell'occupazione militare da parte
dell'Autorità Provvisoria della Coalizione e la ripristinata
sovranità statale dell'Iraq a far data dal 30 giugno 2004,
s'attribuiva a ciascuno degli Stati partecipanti alla Forza
Multinazionale, per la fase di transizione, la responsabilità per
l'esercizio della giurisdizione sul proprio personale;
c) non si profilavano ipotesi di giurisdizione concorrente da parte
di altri Stati, in forza di ulteriori criteri di collegamento, quale
la territorialità o la nazionalità della vittima, e, in ogni caso,
il Dipartimento di Giustizia USA aveva esercitato la giurisdizione
primaria, escludendo in concreto la sussistenza di indizi di reità a
carico del L. e disponendo la chiusura del caso, ritenendo che
il militare avesse agito in conformità alle regole d'ingaggio
previste per il posto di blocco.
2- Avverso detta sentenza hanno proposto distinti e immediati ricorsi
per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di
Roma (anche su richiesta del difensore delle parti civili C.,
motivata per relationem all'allegato parere pro ventate del Prof.
Ca.Gi.), il Procuratore Generale della Repubblica
presso la Corte d'appello di Roma e il difensore della parte civile
S..
La pubblica accusa, a sostegno della tesi favorevole alla
giurisdizione dello Stato italiano, sostiene, con articolati motivi
di censura, in parte sovrapponibili ai rilievi critici del Prof.
CA.G., che:
a) non esiste un principio consuetudinario internazionale, definito
"legge della bandiera", nè accordi internazionali che prevedano
regole di riparto della giurisdizione fra gli Stati partecipanti ad
una Forza Multinazionale operante nel territorio di un altro Stato,
nel senso dell'esclusiva attribuzione della giurisdizione allo Stato
di invio di ciascun contingente militare e con carattere di
prevalenza su ogni altro criterio di collegamento;
b) la Risoluzione ONU n. 1546 del 2004 (che non può considerarsi
self-executing nè immediatamente esecutiva nell'ordinamento statale,
in assenza di uno specifico atto legislativo interno), le allegate
lettere A.- P. e gli Ordini nn. 17 e 100 della CPA si
limitavano a stabilire la giurisdizione esclusiva degli Stati membri
della MNF, e quindi una sorta di immunità del personale, solo nel
rapporto con la giurisdizione territoriale dello Stato di soggiorno,
ma non nei rapporti fra gli Stati contribuenti alla MNF;
c) in numerose leggi statali, emanate fra il 2003 e il 2007 per
regolamentare la disciplina delle missioni italiane all'estero, si è
stabilita la giurisdizione penale italiana e la competenza del
Tribunale di Roma per tutti i reati commessi in territorio iracheno
dallo "straniero" a danno dello Stato o di cittadini italiani
partecipanti alla missione;
d) con la giurisdizione "attiva" degli USA concorreva quella
"passiva" dell'Italia in ragione della nazionalità delle vittime, a
norma degli
artt. 8 e 10 cod. pen., mentre dal rapporto investigativo
delle autorità militari statunitensi non risultava che gli USA
avessero esercitato la giurisdizione nel caso concreto.
I motivi di diritto esposti dalla pubblica accusa sono condivisi e
sviluppati con ulteriori considerazioni - a sostegno della tesi della
giurisdizione italiana - dal difensore della parte civile S.,
il quale sottolinea la "dimensione assiologica degli interessi
protetti", come criterio di determinazione della concorrente
giurisdizione "passiva" dell'Italia, in assenza di specifiche norme
derogatorie di carattere pattizio, al fine di evitare situazioni di
impunità per crimini gravemente lesivi dei diritti fondamentali
dell'uomo.
L'Avvocatura Generale dello Stato, costituitasi per la Presidenza del
Consiglio dei Ministri, si è associata alle richieste della pubblica
accusa e della parte civile ricorrente.
3.- La correttezza della sentenza impugnata è invece sostenuta dal
difensore dell'imputato, il quale ha replicato con apposite memorie
ai motivi di gravame dei ricorrenti, allegando a sostegno delle
proprie argomentazioni i pareri pro ventate del Dr. D.F.,
consulente di diritto internazionale del Governo della Repubblica
Federale di Germania, e del Prof. F.I.L., esperto di
diritto penale militare americano.
Dopo avere dato atto del contesto storico - politico e del regime
giuridico vigente in Iraq all'epoca dei fatti, la difesa
dell'imputato confuta analiticamente i rilievi critici sviluppati dai
ricorrenti e ribadisce (anche mediante diffuse citazioni
giurisprudenziali e dottrinali):
a) l'esistenza e la rilevanza della norma consuetudinaria sulla c.d.
"legge della bandiera", ai fini dell'attribuzione della giurisdizione
esclusiva allo Stato di invio sul proprio personale partecipante alla
Forza Multinazionale operante in Iraq;
b) il riconoscimento di tale giurisdizione in forza della Risoluzione
n. 1546 del 2004 del Consiglio di Sicurezza, adottata ai sensi del
Cap. 7^ della Carta delle Nazioni Unite e perciò vincolante, oltre
che recepita nell'ordinamento italiano mediante le leggi di
finanziamento della missione in Iraq, nonchè degli Ordini nn. 17 e
100 della CPA, riguardanti lo status del personale degli Stati
contribuenti alla MNF;
c) in ogni caso, il primato della giurisdizione "attiva" statunitense
in forza della norma di diritto internazionale generale che sancisce
"l'immunità funzionale" dalla giurisdizione dello Stato straniero
dell'individuo-organo, il quale, come il L., abbia agito iure
imperii nell'esercizio delle funzioni militari di guardia e controllo
a un posto di blocco;
d) l'insussistenza, nella specie, di eccezioni alla regola
dell'immunità funzionale che potrebbero radicare la giurisdizione
penale italiana, non configurandosi comunque un "crimine
internazionale", per l'evidente assenza nelle modalità del fatto
contestato al L. delle caratteristiche di gravita, intensità,
arbitrarietà, odiosità ed intenzionalità, proprie dei crimini
contro l'umanità e dei crimini di guerra;
e) l'avvenuto, effettivo, esercizio della giurisdizione penale nei
confronti del L. per i fatti di cui all'odierno processo, da
parte della giustizia militare degli Stati Uniti, giusta il parere
del Prof. L.F.I. circa i termini e le modalità di
investigazione e chiusura del caso.
Il P.G. presso la Corte di cassazione, non condividendo le censure
dei ricorrenti, ha concluso per il rigetto dei ricorsi, sull'assunto
della immunità funzionale dell'imputato dalla giurisdizione penale
italiana per il compimento di atti eseguiti nell'esercizio delle
funzioni militari affidategli.
Motivi della decisione
1.- La questione di giurisdizione.
La Corte di cassazione è chiamata a rispondere al quesito "se, con
riferimento all'uccisione e al ferimento di due funzionari del SISMI,
in missione governativa in territorio iracheno per conseguire la
liberazione di una giornalista rapita, e della medesima giornalista
appena liberata (attinti da numerosi colpi di arma da fuoco esplosi
contro l'autovettura sulla quale essi viaggiavano la sera del
(OMISSIS) ad un posto di blocco istituito nei pressi dell'aeroporto
di Baghdad), reati contestati ad un soldato in servizio al posto di
blocco ed appartenente al contingente militare USA, dislocato in Iraq
con la Forza Multinazionale, in forza della Risoluzione n. 1546 del
2004 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, sussista, o non,
la giurisdizione penale dello Stato italiano".
2.- Il contesto storico - ordinamentale.
Assume preminente rilievo, per l'inquadramento del contesto storico -
ordinamentale vigente al momento del fatto omicidiario in Iraq (ove
operava fin dal 2003 un contingente militare italiano, nell'ambito
della missione umanitaria denominata "(OMISSIS)" di
stabilizzazione e ricostruzione postbellica di quel Paese), la
Risoluzione n. 1546 adottata l'8/6/2004, alla stregua del Cap. 7^
della relativa Carta, dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite,
con la quale, richiamate le precedenti Risoluzioni nn. 1483, 1500 e
1511 del 2003, si dava atto della fine della "occupazione" da parte
dell'Autorità Provvisoria della Coalizione (CPA) e dell'apertura di
nuova fase di "transizione" verso la ripristinata indipendenza e
sovranità statale dell'Iraq a far data dal 30 giugno 2004.
Con il consenso del Governo iracheno ed a supporto della transizione
politica, veniva confermata l'autorizzazione della Forza
Multinazionale (MNF), sotto comando unificato, ad esercitare
l'autorità per adottare ogni misura necessaria per contribuire al
mantenimento "of security and stability" in Iraq (con l'obbligo per
gli Stati Uniti di riferire, per conto della MNF, degli sforzi fatti
e dei progressi conseguiti), "in accordarne - si aggiunge - with
international law, including obligations under International
humanitarian law".
La Risoluzione n. 1546 richiamava, a sua volta, le annesse lettere
5/6/2004 del Primo Ministro iracheno, A.A., e del
Segretario di Stato USA, P.C., nelle quali erano fissate
le intese dirette ad assicurare il coordinamento fra il Governo
iracheno e la Forza Multinazionale.
In particolare, nella lettera di P. si avvertiva che, per
contribuire efficacemente alla sicurezza, la MNF doveva continuare a
funzionare in un quadro che offrisse al personale lo status di cui
aveva bisogno per portare a termine la missione, nel quale gli Stati
contribuenti "have responsibility for exercising jurisdiction over
the personnel" alla stregua dell'"existing frameworkf; si aggiungeva,
inoltre, che i contingenti militari che formavano la MNF erano
impegnati a compiere le loro attività "under the law of armed
conflict, including the Geneva Conventions".
In tal senso era anche orientata la disciplina dettata dalla Sez. 2^
dell'Order n. 17 (confermato dal successivo Order n. 100, Sez. 3^ p.
8, del 28/6/2004), emanato il 27/6/2004 da B.L.P.,
rappresentante della CPA, circa lo status del personale civile e
militare della MNF, stabilendosi che il relativo personale "shalt be
immune from Iraqi legal process" (p. 1) e "shall be subject to the
exclusive jurisdiction of their Sending States" (p. 3 e 4).
2.1.- Quanto al regime giuridico del contingente militare italiano
che dal 2003 al 2006, insieme ad altri contingenti della coalizione
multinazionale a comando unificato, ha partecipato alla missione
umanitaria di stabilizzazione e ricostruzione postbellica dell'Iraq,
va segnalato il
D.L. 24 giugno 2004, n. 160, conv. in
L. 30 luglio
2004, n. 207, recante proroga della partecipazione italiana a
missioni internazionali, che, insieme con la finalizzazione delle
attività operative "nell'ambito degli obiettivi e delle finalità
individuati nella Risoluzione delle Nazioni Unite n. 1546 dell'8
giugno 2004" (art. 1, comma 2), statuisce, fra le disposizioni in
materia penale, che "i reati commessi dallo straniero in territorio
iracheno, a danno dello Stato o di cittadini italiani partecipanti
alle missioni ... sono puniti sempre a richiesta del Ministro della
giustizia e sentito il Ministro della difesa per i reati commessi a
danno di appartenenti alle forze annate" (art. 10, comma 2) e che
"per i reati di cui al comma 2 la competenza territoriale è del
tribunale di Roma" (art. 10, comma 3): disposizioni, quest'ultime,
tralaticiamente reiterate nei successivi decreti legge sulla
partecipazione italiana a missioni internazionali (v., fra gli altri,
il
D.L. 19 gennaio 2005, n. 3, art.
13, conv. in
L. 18 marzo 2005, n.
37, e, da ultimo, del
D.L. 31 gennaio 2008, n. 8, art.
5, conv. in
L.
13 marzo 2008, n. 45).
2.2.- Lo stazionamento sul territorio iracheno di contingenti
militari appartenenti alla MNF, tenuto conto del contesto storico e
internazionale in cui le operazioni di intervento erano inserite, si
collocava dunque, almeno a partire dalla Risoluzione n. 1546,
nell'ambito delle missioni di pace (peace support operations) delle
Nazioni Unite, definite, di volta in volta, peace-keeping, peace-
building o peace-enforcement, a seconda del prevalere di taluni
aspetti (la sicurezza, la stabilità, la tutela dei diritti umani
ecc.) rispetto al mero mantenimento della pace: tutte caratterizzate,
peraltro, nonostante il moltiplicarsi e la diversità delle
situazioni di crisi internazionali, anche non belliche o
postbelliche, dal consenso dello Stato ospitante (Host State), dal
significativo impiego di personale militare da parte degli Stati
contribuenti (Sending States) e, infine, dalla pluralità e
complessità delle funzioni e degli obiettivi perseguiti anche di
polizia internazionale, sulla base del meccanismo previsto dal Cap.
7^ della Carta delle Nazioni Unite.
3.- La "legge della bandiera" ("nello zaino").
Orbene, a fronte del descritto modulo organizzativo, multinazionale e
multifunzionale, della missione di pace autorizzata dalle Nazioni
Unite in Iraq, difficilmente riconducibile ai classici schemi di
occupazione bellica elaborati nel passato, appare davvero inadeguato
il riferimento fatto nel caso in esame dalla Corte d'assise di Roma,
al fine di paralizzare l'operatività del criterio di collegamento
della giurisdizione "passiva" dello Stato italiano,
giusta la nazionalità delle vittime del fatto criminoso (
artt. 8 e
10 cod. pen.;
D.L. 19 gennaio 2005, n. 3, art.
13, conv. in
L. 18
marzo 2005, n. 37), ad un preteso principio internazionale
consuetudinario (c.d. "legge della bandiera"), universalmente
riconosciuto e direttamente applicabile in virtù
dell'art. 10 Cost.,
comma 1, in virtù del quale è attribuita in via esclusiva allo
Stato di invio del contingente militare all'estero, in caso di
occupazione, bellica o non, transito e stazionamento di truppe
straniere sul territorio di uno Stato, la giurisdizione civile e
penale per gli illeciti commessi dal proprio personale in quel
territorio.
Pure a prescindere dai dubbi espressi dalla Corte permanente di
giustizia internazionale nella remota decisione pronunciata il
7/9/1927 nel caso S.S. Lotus, circa l'effettiva prova dell'esistenza
di "a rule of customary International law which established the
exclusive jurisdiction of the State whose flag was flown on board a
merchant ship on the high seas", poichè "the principle is not
universally accepted", osservavano intatti le Sezioni Unite penali di
questa Corte, già con sentenza del 28/11/1959, Meitner (in Giust.
pen., 1960, 3^, 481; cui adde Cass. Sez. 2^, 30/1/1959, P.M. in proc.
Parker, ivi, 1959, 3^, 424 e Sez. 2^, 15/4/1959, Knopich, ivi, 1960,
3^, 22), che l'evolversi dei rapporti internazionali dopo il secondo
conflitto mondiale, con la conseguente creazione di basi permanenti
nel territorio di altri Stati, "... ha determinato la progressiva
limitazione del principio della c.d. giurisdizione della bandiera
("ubi signa et jurisdictio", "la loi suit le drapeau"), in forza del
quale veniva riconosciuto allo Stato d'origine, o della bandiera, "ne
impediatur officium", e cioè ad assicurargli la disponibilità dei
propri reparti, il diritto di esercitare la giurisdizione sulle
proprie truppe dislocate in territorio estero e perciò esenti da
quella dello Stato occupato od ospitante".
Segnalavano le Sezioni Unite, con tale storica sentenza, come nella
Convenzione di Londra del 19/6/1951, ratificata e resa esecutiva con
L. 30 novembre 1955, n. 1335, concernente o statuto dei militari
appartenenti alle forze armate della NATO dislocate in territorio
alleato (c.d. NATO SOFA), il tradizionale principio immunitario di
personalità attiva, "a tutela della funzione e non della persona",
per i reati commessi dall'organo militare nell'espletamento del
servizio - "on official duty" -, veniva limitato rispetto al
principio "di territorialità: "accanto alla già esclusiva
giurisdizione della bandiera, è riconosciuta quella dello Stato di
soggiorno", prevedendo l'art. 7 del Trattato Nord Atlantico un più
sofisticato sistema di riparto e regolamentazione delle priorità fra
le due giurisdizioni concorrenti.
E in tal senso si sono altresì pronunciati sia la Corte
costituzionale (n. 96 del 1973 e n. 446 del 1999), sia taluni giudici
di merito (G.i.p. Trib. Trento, 13/7/1998, Ashby e altri, nel caso
Cermis, in Cass. Pen. 1999, 3588).
4.- I SOFAs (Status of Forces Agreements): il SOFA Iraq.
Con riguardo alla frammentarie declinazioni dei moderni modelli delle
missioni di pace istituite o autorizzate dalle Nazioni Unite sono
cresciute - come si è detto - le difficoltà di identificazione del
quadro delle fonti normative, nazionali o internazionali, applicabili
alle condotte penalmente illecite del personale dei plurimi
contingenti militari, operanti anche per conto di organismi
sopranazionali, e ciò soprattutto in considerazione della
multinazionalità della forza impiegata in una medesima missione,
della portata del mandato internazionale che ne legittima l'operato,
del tipo e dell'effettività della catena di comando, del ruolo delle
regole d'ingaggio e di altre variabili, anche in rapporto alla
singola o alle diverse nazionalità dei militari autori dell'illecito
e al margine di applicazione riservato alla giurisdizione locale.
Trova oggi, pertanto, ampia diffusione la prassi internazionale di
disciplinare pattiziamente il dispiegarsi di immunità funzionali e
il sistema di riparto della giurisdizione penale, mediante un nucleo
di norme regolatrici dello status del personale dei contingenti
militari impegnati nelle operazioni militari all'estero, incorporate
in più ampi accordi stipulati fra gli Stati contribuenti alla Forza
Multinazionale e lo Stato di soggiorno delle truppe: accordi
bilaterali o multilaterali denominati SOFAs - Status of Forces
Agreements -, diretti a risolvere i problemi che possono insorgere
dalla convivenza delle leggi dello Stato di invio e di quello di
destinazione in ordine alle condotte criminose poste in essere dal
personale della Forza Multinazionale nell'espletamento del servizio.
Assume indubbio rilievo, in questa logica consensuale, il modello di
riferimento per la stesura di siffatti accordi costituito dal Model
SOFA ONU (Model status-of-forces agreement for peace-keeping
operations) adottato dalle Nazioni Unite nel 1990 (Rapporto del
Segretario Generale, Doc. A/45/594, 9 ottobre 1990), che statuisce
l'immunità dalla giurisdizione locale e la competenza esclusiva sui
militari dello Stato di appartenenza per ogni reato commesso nello
Stato di destinazione, nel corso di un'attività finalizzata
all'adempimento dei propri doveri, escludendo radicalmente la
competenza di quest'ultimo (art. 7, artt. 46, 47 - b, 48), seguito
dal Model Agreement del 1991 tra l'ONU e i Paesi membri che
contribuiscono al personale delle missioni (Doc. A/46/185, 23 maggio
1991, art. 8).
A siffatto modello sembra sostanzialmente ispirarsi, d'altra parte,
anche la specifica disciplina dettata dalla Risoluzione n. 1546 del
Consiglio di Sicurezza, dalle annesse lettere 5/6/2004 del Primo
Ministro iracheno e del Segretario di Stato USA e dalle disposizioni
d&I'VOrder n. 17, sopra richiamate, circa lo status, le immunità e
la giurisdizione esclusiva dello Stato d'invio del personale della
MNF (c.d. SOFA Iraq).
Gli accordi bilaterali o multilaterali detti SOFAs, anche nella più
articolata versione di una regolamentazione del riparto e della
priorità della giurisdizione (quali esempi di "shared jurisdiction",
v. l'art. 7 dell'Accordo di Londra del 1951 tra i Paesi della NATO e
l'art. 17 del Model SOFA UE stipulato il 17 novembre 2003 tra gli
Stati membri dell'Unione Europea), sono diretti, pertanto, a
disciplinare, convenzionalmente e nel dettaglio, i rapporti per così
dire "verticali" tra lo Stato di invio e lo Stato di destinazione,
escludendo, in linea di principio, la competenza "territoriale" di
quest'ultimo in favore dell'esclusiva giurisdizione "attiva" dello
Stato di appartenenza per i fatti illeciti commessi nell'espletamento
del servizio dai componenti del contingente militare.
E però, nonostante la tendenziale riserva di giurisdizione a favore
dello Stato d'invio rivelata dalle prassi internazionali, non è dato
ancora ravvisare l'esistenza di un riconosciuto principio
consuetudinario internazionale ovvero di accordi ad hoc o SOFAs, che
dettino speciali ed esplicite regole di riparto "orizzontale" della
giurisdizione fra gli Stati partecipanti alla Coalizione o alla Forza
Multinazionale operante nel territorio di un altro Stato.
S'intende dire, in altre parole, che non risulta affermato con
chiarezza nel sistema di diritto internazionale lo status dei
contingenti multinazionali nei loro rapporti reciproci, nè tantomeno
l'esclusiva attribuzione della giurisdizione allo Stato di
appartenenza di ciascun contingente militare, con carattere di
prevalenza su ogni altro criterio concorrente di collegamento, come
quello della giurisdizione "passiva", neppure nei più drammatici
casi -come nella specie - di "danni collaterali" o di "fuoco amico",
cioè di condotte criminose, dolose o colpose, in danno di membri del
contingente militare o comunque cittadini di altro Stato,
contribuente e alleato nella medesima missione di pace: zone grigie,
queste, caratterizzate dall'emersione di problematiche nuove e
controverse per l'evidente coinvolgimento di una pluralità di
ordinamenti.
Donde l'irrilevanza, ai fini della controversa questione di
giurisdizione, del problema attinente alla pretesa natura self-
executing, o non, nell'ordinamento italiano della Risoluzione del
Consiglio Sicurezza n. 1546 del 2004, pur dovendosi rilevare che
l'opzione negativa sembra preferibile alla luce della prassi
legislativa italiana che richiede una norma di adattamento interno,
soprattutto se ne debbano conseguire effetti indiretti in materia
penale, ostandovi la riserva di legge ex
art. 25 Cost., comma 2,
(Cass. Sez. 1^, 8/7/1994, Barcot, in Giur. it., 1995, 2^, 232).
5.- L'immunità funzionale (ratione materiae) degli organi dello
Stato estero.
Anche per quest'aspetto, dunque, in assenza di una solida e
riconosciuta consuetudine o di convenzioni internazionali, bilaterali
o multilaterali, che disegnino con chiarezza "the legal framework",
per quanto riguarda lo status del personale e la sorte delle
relazioni "orizzontali" fra gli Stati contribuenti alle missioni
internazionali di pace, si rivela inadeguata l'analisi condotta dalla
Corte d'assise per giustificare la soluzione ostativa, nel caso di
specie, all'operatività del criterio di collegamento della
giurisdizione "passiva" dello Stato italiano ex
artt. 8 e 10 cod.
pen., (dovendosi escludere, in ogni caso, l'applicabilità del
D.L.
n. 3 del 2005, art.
13, conv. in
L. n. 37 del 2005, atteso che
nessuno dei cittadini italiani coinvolti nei tragici eventi cagionali
dall'azione militare del L. partecipava alla missione di pace
in Iraq, essendo il C. e il Ca. funzionari del Sismi
incaricati ad hoc della liberazione della S., giornalista
sequestrata da terroristi iracheni).
Ritiene, invece, questa Corte che il fondamento del primato esclusivo
della giurisdizione "attiva" degli USA debba rinvenirsi nel principio
consuetudinario di diritto internazionale che sancisce la "immunità
funzionale" (ratione materiae), dalla giurisdizione interna dello
Stato straniero, nella specie quello italiano, dell'individuo-organo
il quale, come l'imputato L., soldato del contingente militare
statunitense facente parte della MNF, operante in Iraq sotto l'egida
del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ma sotto il "controllo
effettivo" della struttura di comando dello Stato d'invio (v., in
proposito, Corte eur. d. uomo, 31/5/2007, nei casi Behrami e Saramati
c. Francia), abbia agito iure imperii nell'esercizio delle funzioni
di guardia e di controllo a un posto di blocco.
Costituisce, infatti, principio di fonte internazionale
consuetudinaria, universalmente accettato dalla prevalente dottrina e
dalle prassi giurisprudenziali, nazionali e internazionali, recepito
nell'ordinamento giuridico italiano siccome norma di diritto
internazionale generale preesistente (Corte cost., n. 48 del 1979),
in forza dell'adeguamento automatico disposto
dall'art. 10 Cost.,
comma 1, e prevalente, in quanto tale, sui criteri di collegamento
delineati dalle norme statali anche di fonte penale, quello per cui
sono sottratti alla giurisdizione civile o penale di uno Stato estero
i fatti e gli atti eseguiti iure imperii dagli individui-organi di un
altro Stato nell'esercizio dei compiti e delle funzioni pubbliche ad
essi attribuiti.
L'esistenza di una siffatta norma consuetudinaria di diritto
internazionale e la sua operatività nel nostro ordinamento non sono
revocabili in dubbio, poichè il principio della immunità
funzionale, pure nella nozione "ristretta" o "relativa", limitata
cioè alle sole attività che, a differenza di quelle "iure
gestionis", sono espressione diretta e immediata della funzione
sovrana degli Stati, tra le quali ontologicamente rientrano le
attività eseguite nel corso di operazioni militari, ha trovato ampio
e incontroverso riconoscimento, fin dal risalente e famoso caso
McLeod del 29 dicembre 1837, sia nella dottrina che nella
giurisprudenza, interna e internazionale.
A conforto della tesi della permanente validità del principio
dell'immunità dalla giurisdizione civile per questa tipologia di
atti possono richiamarsi, oltre la costante giurisprudenza nazionale
di legittimità (Cass. Sez. Un. civ., nn. 14199 e 14201 del 2008, n.
11255 del 2005, n. 5044 del 2004, n. 8157 del 2002, n. 530 del 2000),
le pronunzie di altre Corti supreme europee (17/7/2002 della Corte
Suprema greca, 26/6/2003 della Corte federale di cassazione tedesca,
16/12/2003 della Corte di cassazione francese, 14/6/2006 della House
of Lords inglese, nel caso Jones), gli arresti della Corte europea
dei diritti dell'uomo (21/11/2001, AlAdsani c. Regno Unito,
12/12/2002, Kalogeropoulou c. Grecia e Germania, 14/12/2006, Markovic
c. Italia), la decisione 29/10/1997 del Tribunale penale
internazionale per la ex Jugoslavia, caso BlaSkic (subpoena) e,
infine, la più recente pronunzia della Corte internazionale di
giustizia, 4/6/2008, Gibuti c. Francia, p. 185, 194 - 196 (cui adde,
della stessa Corte, la sent. 14/2/2002, Repubblica democratica del
Congo c. Belgio, caso del Mandato d'arresto dell'11/4/2000 nei
confronti dell'ex Ministro degli esteri Yerodia, p. 58).
La regola (autonoma e distinta da quella sulla "immunità personale"
o ratione personae, di cui beneficiano tradizionalmente alcuni organi
dello Stato, temporaneamente ma per qualsiasi atto da essi compiuto
finchè rivestono il relativo ruolo, perciò insuscettibile di
interpretazioni estensive o analogiche: Cass. Sez. 3^, 17/3/1997 n.
1011, P.M. in proc. Ghiotti, rv. 210861; Sez. 3^, 17/9/2004 n. 49666,
P.M. in proc. Djukanovic, rv. 230222), costituisce il naturale
corollario del principio, pure consuetudinario, sull'immunità
"ristretta" degli Stati dalla giurisdizione straniera per la
responsabilità civile derivante da attività di natura ufficiale,
ture imperii, materialmente eseguite dai suoi organi.
Ogni Stato, indipendente e sovrano, è libero di stabilire la propria
organizzazione interna e individuare le persone autorizzate ad agire
per suo conto, sicchè, una volta determinate la qualità di organo e
la sua competenza, le relative condotte individuali esprimono
l'esercizio di una funzione pubblica e sono imputabili allo Stato,
comportandone, senza indebite interferenze da parte dei tribunali di
un altro Stato, solo la responsabilità per l'eventuale illecito
internazionale da far valere nei rapporti fra lo Stato leso e lo
Stato responsabile, a garanzia dell'assetto strutturale della stessa
comunità e delle relazioni internazionali nel rispetto delle
reciproche sovranità fra gli Stati ("par in parem non habet imperium
/jurisdictionem").
Va sottolineato altresì che l'immunità, quale regola generale (nei
procedimenti civili), è enunciata sia nella Convenzione europea
sull'immunità degli Stati del 16 maggio 1972, sia nella più recente
Convenzione di New York sulle immunità giurisdizionali degli Stati e
dei loro beni, adottata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite
il 2 dicembre 2004 (entrambe non ratificate dall'Italia), redatte
secondo il metodo della "lista" delle "commerciai exceptions" con
riguardo ad attività di tipo privatistico.
Restano comunque escluse dalla c.d. tort exception, e perciò dalla
sfera di applicazione di entrambe le Convenzioni, le azioni o le
omissioni produttive di lesioni personali e danni, imputabili alle
forze armate di uno Stato straniero stanziate sul territorio di altro
Stato, vieppiù in situazioni di conflitto armato, che continuano ad
essere regolate da "the rules of customary international law" (v.
l'art. 12 della Convenzione di New York, sulla base dell'opinione
resa dal Prof. G. Hafner, Presidente del Comitato ad hoc incaricato
di redigere la Convenzione, alla Sesta Commissione dell'Assemblea
generale il 25/10/2005, e l'art. 31 della Convenzione di Basilea).
Il principio dell'immunità funzionale sembra, infine, espressamente
confermato dallo Statuto della Corte penale internazionale
(ratificato dall'Italia con
L. 12 luglio 1999, n. 232), che, pur
sancendo l'irrilevanza delle qualifiche ufficiali e delle immunità
delle persone chiamate a rispondere davanti ad essa (art. 27), esige
peraltro la cooperazione o il consenso dello Stato terzo o dello
Stato d'invio per la rinunzia all'immunità e per la consegna da
parte dello Stato territoriale della persona ricercata, come nel caso
di militare appartenente al contingente dello Stato d'invio (art.
98).
6.- "Immunità funzionale", "crimini internazionali" e "jus cogens".
E' peraltro ricostruibile una più recente tendenza evolutiva, sia
nella dottrina internazionalistica che in una parte ancora
minoritaria della giurisprudenza interna, diretta a contrastare la
più ampia applicazione della regola consuetudinaria sull'immunità
dello Stato estero, relativamente alla responsabilità civile
derivante dall'attività illecita compiuta iure imperii da un suo
organo, oltre che sull'immunità dalla giurisdizione penale
dell'individuo - organo autore del medesimo illecito,
prospettandosene la "cedevolezza" laddove gli atti siano stati
eseguiti in violazione di norme di diritto internazionale cogente,
come in tema di tutela dei diritti fondamentali dell'uomo, per
essersi l'individuo-organo reso colpevole di "crimini
internazionali", a garanzia di valori fondanti la comunità
internazionale nel suo insieme.
D'altra parte, pur dovendosi dare atto della prevalenza dell'opposta
tesi, che al più ammette deroghe solo di fonte convenzionale, come
per il genocidio o la tortura, alla dottrina dell'immunità dello
Stato, "as the current mie of public International law" (House of
Lords, 14/6/2006, nel caso Jones, e 24/3/1999, nel caso Pinochet 3^;
Corte suprema d'Irlanda, 15/12/1995, nel caso McElhinney; Corte
suprema dell'Ontano, 1/5/2002, nel caso Bouzari; C. eur. d. uomo,
21/11/2001, Al Adsani c. Regno Unito, 21/11/2001, McElhinney c.
Irlanda, 12/12/2002, Kalogeropoulou c. Grecia e Germania, 14/12/2006,
Markovic c. Italia; C.I.G., 14/2/2002, caso del Mandato d'arresto, p.
58; Trib. pen. intern. per la ex Yugoslavia, 10/12/1998, caso
Furundzija), merita di essere sottolineato che nelle più attente
decisioni della Corte europea dei diritti dell'uomo (21/11/2001, Al
Adsani e 12/12/2002, Kalogeropoulou, citt.) si avverte, tuttavia, che
ciò "does not preclude a development in customary internalional law
in the future".
Può pertanto ritenersi (condividendosi, sul punto, le lucide
argomentazioni dei più recenti arresti delle Sezioni Unite civili:
n. 5044 del 2004, nn. 14199 e 14201 del 2008, citt.) che sia "in via
di formazione" una consuetudine internazionale la quale, in
considerazione del carattere cogente e imperativo delle norme di
diritto internazionale umanitario ("peremptory norms of generai
international law", nella dizione dell'art. 53 della Convenzione di
Vienna del 23 maggio 1969 sul diritto dei trattati), che impongono il
rispetto dei diritti umani fondamentali, e della concreta lesività
di "valori universali che trascendono gli interessi delle singole
comunità statali", è diretta a limitare l'immunità dalla
responsabilità civile dello Stato estero, il cui organo, pur
nell'esercizio di un'attività iure imperii, come in situazioni
belliche, si sia tuttavia reso autore di atti di gravita tale da
"minare le fondamenta stesse della coesistenza tra i popoli" (Corte
cost. di Ungheria, n. 53 del 1993), configurabili perciò come
"crimini internazionali".
D'altra parte, anche sul diverso piano del regime della
responsabilità penale individuale per talune fattispecie di crimini
contro l'umanità, crimini di guerra o atti di genocidio commessi
dall'individuo-organo di uno Stato estero, pure nell'esercizio di
funzioni ufficiali, questa Corte suprema ha affermato, in armonia con
le risalenti decisioni pronunziate nei confronti di criminali nazisti
dai Tribunali militari internazionali di Norimberga e Tokyo, dalla
Corte suprema israeliana il 29/5/1962 nel caso Eichmann e da altre
Corti supreme interne, l'imprescrittibilità dei reati e, in
considerazione del criterio di collegamento della nazionalità delle
vittime o del luogo di commissione del delitto ovvero in forza della
universalità della giurisdizione ex
art. 7 c.p., n. 5, ha ritenuto
pacificamente sussistente la giurisdizione passiva o per taluni versi
universale. E ciò sull'assorbente rilievo che l'esecuzione di un
barbaro eccidio di prigionieri inermi, in violazione del diritto
bellico e dei più elementari principi umanitari dello jus gentium,
nel pur inadeguato quadro di riferimento vigente all'epoca dei fatti
(Convenzioni dell'Aja del 1899 e del 1907 sulle leggi e gli usi di
guerra terrestre e marittima), anteriore al regime delle regole del
diritto umanitario bellico di cui alle quattro Convenzioni di Ginevra
del 1949 e ai due Protocolli addizionali del 1977, recava
ontologicamente "le stimmate" della riconoscibile contrarietà ai
più elementari principi di umanità e della clamorosa criminosità
dello sterminio di massa (Trib. Supr. Mil., 25/10/1952, Kappler;
Cass. Sez. 1^ pen., 16/11/1998 n. 1230, Priebke e Hass, per l'eccidio
delle Fosse Ardeatine; Sez. 1^ Pen. 8/11/2007 n. 4060/08, Sommer, per
la strage di Sant'Anna di Stazzema).
Dalla parallela e antinomica coesistenza nell'ordinamento
internazionale dei due principi, entrambi di portata generale,
consegue, come logico corollario, che l'eventuale conflitto, laddove
essi vengano contemporaneamente in rilievo, debba risolversi sul
piano sistematico del coordinamento e sulla base del criterio del
bilanciamento degli interessi, dandosi prevalenza al principio di
rango più elevato e di jus cogens, quindi alla garanzia che non
resteranno impuniti i più gravi crimini lesivi dei diritti
inviolabili di libertà e dignità della persona umana, "per il suo
contenuto assiologico di meta-valore" nella comunità internazionale,
rispetto agli interessi degli Stati all'uguaglianza sovrana e alla
non interferenza, rappresentando la violazione di quei diritti
fondamentali "il punto di rottura dell'esercizio tollerabile della
sovranità", in altre parole l'"abuso di sovranità" dello Stato.
7.- La non configurabilità, nella specie, del "crimine di guerra".
Occorre pertanto chiedersi, a questo punto, se nella vicenda
omicidiaria de qua possa, o non, ravvisarsi un crimine
internazionale, idoneo a paralizzare, insieme con l'immunità
funzionale dell'imputato, l'eccezione di difetto di giurisdizione del
giudice penale italiano, essendosi già rimarcato come l'applicazione
delle norme di diritto internazionale umanitario, incluse quelle
della Convenzione di Ginevra, prevista in via generale per le
operazioni multinazionali di pace su mandato o autorizzazione delle
Nazioni Unite (Bollettino del Segretario Generale, 6 agosto 1999),
costituisca oggetto di specifiche clausole della Risoluzione del
Consiglio di sicurezza n. 1546 del 2004 e dell'annessa lettera di
P.: donde l'irrilevanza, a tal fine, della definizione della
situazione irachena, almeno a far data dalla fine dell'occupazione
militare in senso stretto, come conflitto armato internazionale o non
internazionale.
Si osserva in dottrina - e il rilievo va condiviso - che i crimini
individuali di natura propriamente internazionale hanno una struttura
complessa, nel senso che essi, anche se si sostanziano in fattispecie
costituenti reati per il singolo ordinamento penale nazionale (es.
omicidio), presentano, rispetto agli schemi di parte speciale dei
vari codici penali, un quid pluris costituito da uno o più elementi
tipici, soggettivi e oggettivi, atti a trasformarli qualitativamente
e ad elevarli a rango autonomo di delitti lesivi degli interessi e
dei valori della comunità internazionale nel suo insieme.
Dovendosi certamente escludere la configurabilità, nella specie, di
un "crimine contro l'umanità", inserito in un contesto di pratica
diffusa e sistematica contro la popolazione civile di cui l'autore
abbia consapevolezza (per la puntuale descrizione di questa figura,
v. l'art. 7 dello Statuto della Corte penale internazionale, nonchè
Trib. pen. intern. per la ex Yugoslavia, 2/9/1998, caso Akayesu),
mette conto di rilevare, quanto alla categoria dei "crimini di
guerra", che si qualificano tali le violazioni gravi ("grave
breaches") del diritto umanitario nei conflitti armati, a tutela
della vita e dell'integrità fisica e psichica delle persone,
appartenenti in particolare alla popolazione civile, che in quel
contesto non prendono parte alle ostilità.
Crimini, quest'ultimi, che, già codificati nelle quattro Convenzioni
di Ginevra del 1949 e nei due Protocolli addizionali del 1977
(ratificati dall'Italia con leggi, rispettivamente, del 27/10/1951 n.
1739 e dell'11/12/1985 n. 762), sono altresì analiticamente indicati
nel dettagliato elenco di cui all'art. 8 dello Statuto della Corte
penale internazionale, e la cui repressione è affidata sia alle
giurisdizioni penali interne degli Stati contraenti (sulla base dei
tradizionali criteri della territorialità, della personalità attiva
o passiva e della universalità), sia ai Tribunali penali
internazionali ad hoc (per la ex Yugoslavia e per il Ruanda) sia alla
Corte penale internazionale.
In particolare, mette conto di rilevare che: è espressamente vietato
dall'art. 3 comune alle quattro Convenzioni di Ginevra, nei confronti
dei civili e delle persone che non partecipano direttamente alle
ostilità, l'omicidio in tutte le sue forme ("murder of all kinds":
p. 1 a); l'art. 147 della 4^ Convenzione annovera nella lista delle
infrazioni gravi, per le quali il precedente art. 146 impegna le
Parti contraenti a deferirne gli autori ai propri tribunali o a
consegnarli ad un'altra Parte interessata al procedimento ("aut
dedere aut judicare", secondo il principio di complementarità della
giurisdizione), l'omicidio intenzionale ("wilful killing"); infine,
l'art. 85 del 1^ Protocollo addizionale qualifica infrazioni gravi
gli atti commessi intenzionalmente che provochino la morte o lesioni
gravi all'integrità fisica o alla salute di persone coinvolte in
attacchi alla popolazione civile.
L'art. 8 dello Statuto della Corte penale internazionale statuisce, a
sua volta, che s'intendono per "crimini di guerra" (per cui la Corte
ha competenza a giudicare, in particolare se commessi come parte di
un piano o di un disegno politico, o come parte di una serie di
crimini analoghi commessi su larga scala) gli atti posti in essere
contro le persone protette dalle norme delle Convenzioni di Ginevra,
costituenti "gravi violazioni", fra i quali l'"omicidio intenzionale"
(2)(a)(i) e, nei conflitti armati internazionali, "dirigere
intenzionalmente attacchi contro civili che non partecipano
direttamente alle ostilità" (2)(b)(i), o, nei conflitti armati non
di carattere internazionale - escluse le situazioni interne di
disordini e tensioni -, le gravi violazioni dell'art. 3 comune alle
Convenzioni di Ginevra, fra le quali gli "atti di violenza contro la
vita e l'integrità della persona, in particolare tutte le forme di
omicidio" (2)(c)(i), o "dirigere intenzionalmente attacchi contro
civili che non partecipino direttamente alle ostilità" (2)(e)(i):
fattispecie, queste, per le quali si esige, quale indefettibile
elemento costitutivo, la consapevolezza da parte dell'autore del
crimine delle circostanze fattuali che fissano lo stato di protezione
della vittima secondo le leggi internazionali regolatrici del
conflitto armato.
Orbene, ritiene questa Corte, ai fini della dedotta questione di
giurisdizione, che sia evidente la sproporzione di scala fra la
vicenda in esame (nei termini fattuali della imputazione omicidiaria
contestata al L., come stabilizzatasi all'esito dell'udienza
preliminare) e le caratteristiche soggettive ed oggettive del
"crimine di guerra", con riguardo sia alla definizione di "grave
breaches" nelle citate norme di diritto umanitario dei conflitti
armati, sia alle più recenti prassi giurisprudenziali interne (per
l'Italia, v. G.u.p. Trib. mil. Roma, 9/5/2007, nel caso di uso delle
armi da parte di militari italiani di stanza in Iraq contro
un'ambulanza irachena e il personale addetto, con la conseguente
uccisione di civili; per la Spagna, v. Tribunal Supremo, 11/12/2006 e
Audiencia Nacional, 13/5/2008, nel caso dell'attacco intenzionale e
indiscriminato da parte di un carro armato statunitense contro
l'Hotel Palestine a Baghdad, ove erano notoriamente alloggiati
giornalisti della stampa internazionale, con la conseguente uccisione
di un giornalista spagnolo Josè Manuel Causo).
Sembrano ostare, in linea di principio, alla configurabilità di un
odioso e inumano atto ostile contro civili e quindi del "crimine di
guerra", nonostante l'indubbia tragicità degli eventi lesivi in
danno di persone estranee al conflitto armato iracheno, la concreta
dimensione storico-fattuale dell'episodio (l'approssimarsi del
veicolo, con a bordo i due funzionari italiani e la giornalista
liberata, in avvicinamento veloce al posto di blocco per raggiungere
l'aeroporto militare di Baghdad; la localizzazione del checkpoint
all'intersezione fra due strade di accesso all'aeroporto, già
oggetto di ripetuti attacchi terroristici; la situazione obiettiva di
massima allerta dei soldati in servizio al posto di blocco, in attesa
del corteo dell'ambasciatore USA in Iraq; l'ora notturna) e il
carattere isolato e individuale dell'atto. E ciò a prescindere da
ogni valutazione di merito, in questa sede inammissibile, circa la
pur richiesta, piena consapevolezza - da parte dell'autore - delle
circostanze fattuali dalle quali poter desumere lo statuto di
protezione delle vittime, nonchè in ordine alla effettiva necessità
militare e alla proporzionalità dell'attacco, e alla corretta
osservanza degli ordini e delle regole d'ingaggio.
D'altra parte, non può affatto considerarsi priva di significato la
circostanza che neppure la pubblica accusa ha mai preso in
considerazione l'ipotesi che nella vicenda in esame potesse
configurarsi un "crimine di guerra".
Il reato di omicidio di C. e di tentato omicidio di
Ca. e S. è stato invero qualificato dal pubblico
ministero prima come delitto "comune" e poi come delitto "politico",
commesso dallo straniero all'estero a danno dello Stato e di
cittadini italiani, con riferimento alle specifiche condizioni di
procedibilità richieste, rispettivamente, dagli
artt. 110 e 8 cod.
pen., ma non con riguardo allo spazio di tutela incondizionata
consentito dal principio di universalità di cui
all'art. 7 cod.
pen., n. 5, qualora si fosse invece ravvisata la natura
internazionale del delitto secondo la IV Convenzione di Ginevra del
1949.
Nessun cenno al preteso "crimine di guerra" è dato altresì
rinvenire nei pur diffusi e articolati motivi di ricorso per
cassazione proposti avverso la sentenza impugnata dal Procuratore
Generale e dal Procuratore della Repubblica di Roma (cui l'Avvocatura
dello Stato si è limitata a prestare adesione).
8.- Le statuizioni decisone.
A conclusione delle suesposte considerazioni, riguardo al quesito
sottoposto al vaglio di questa Corte (enunciato retro, sub 1), può
affermarsi il seguente principio di diritto: "Non sussiste la
giurisdizione penale dello Stato italiano nè quella dello Stato
territoriale, bensì quella esclusiva degli USA, Stato di invio del
personale militare partecipante alla Forza Multinazionale in Iraq, in
applicazione del principio di diritto internazionale consuetudinario
della "immunità funzionale" o ratione materiae dell'individuo-organo
dello Stato estero dalla giurisdizione penale di un altro Stato, per
gli atti eseguiti iure imperii nell'esercizio dei compiti e delle
funzioni a lui attribuiti: principio non derogabile, nella specie,
per l'assenza nelle circostanze e modalità del fatto contestato
delle caratteristiche proprie della "grave violazione" del diritto
internazionale umanitario, con particolare riguardo alla non
configurabilità nel caso concreto di un "crimine contro l'umanità"
o di un "crimine di guerra".
Di talchè, attesa la priorità esclusiva della giurisdizione degli
Stati Uniti in ordine alla fattispecie criminosa de qua, resta
assorbita la questione riguardante la verifica dell'avvenuto,
effettivo, esercizio da parte dello Stato d'invio, della
giurisdizione penale nei confronti del L.: giurisdizione che,
secondo il parere del Prof. L.F.I., sarebbe stata comunque
attivata nei termini e con le modalità propri del sistema di
giustizia penale militare statunitense, concludendosi con una
pronuncia analoga ad una sorta di provvedimento di non luogo a
procedere, sull'assunto che il soldato avesse agito ("cercando di
neutralizzare il veicolo che si stava avvicinando e che era stato
percepito dalle forze come una minaccia": nota 19/4/2006 del
direttore della divisione criminale, ufficio affari internazionali,
del Dipartimento della Giustizia USA) in conformità alle regole
d'ingaggio previste per le operazioni di guardia e di controllo al
posto di blocco.
Risulta parimenti assorbita l'ulteriore questione in rito, anch'essa
pregiudiziale, cui si fa cenno nella narrativa della sentenza
impugnata e che è desumibile dagli atti, circa la sussistenza, per
il delitto in esame, di una valida condizione di procedibilità, pur
dovendo la Corte sottolineare l'anomalia procedimentale per cui, a
fronte della formale richiesta 8/3/2005 del Ministro della Giustizia
di procedere contro ignoti in ordine a tale delitto, ai sensi
dell'art. 10 cod. pen., (delitto u comune" commesso dallo straniero
all'estero, per cui occorre l'ulteriore presupposto che egli si trovi
nel territorio dello Stato), il G.u.p. del Tribunale di Roma, nel
disporre il rinvio a giudizio del L. con
decreto del 7/2/2007,
ha qualificato lo stesso, secondo la concorde prospettazione del P.M.
e delle PP.CC. circa l'avvenuta lesione di interessi politici dello
Stato, sottesi all'incarico governativo di ottenere la liberazione
della giornalista rapita, come delitto "oggettivamente politico", per
la cui procedibilità, a differenza del delitto comune,
l'art. 8 cod.
pen., non prescrive, oltre la richiesta del Ministro della Giustizia,
la necessaria presenza dello straniero nel territorio nazionale.
In definitiva, la declaratoria di non doversi procedere nei confronti
del L. per difetto della giurisdizione penale italiana va
confermata, pur con le opportune rettificazioni, nei termini
suesposti, del percorso giustificativo delle ragioni della decisione
impugnata.
Al rigetto dei ricorsi della parte pubblica e della parte civile
segue la condanna di quest'ultima al pagamento delle spese del
procedimento, a norma
dell'art. 592 c.p.p., comma 1.